Maturità 2019. Ancora una volta i nostri intellettuali hanno sbagliato battaglia.

Erano preoccupati, perché pensavano che la storia sarebbe sparita dalla prima prova dell’esame che tutti noi continuiamo a chiamare “di maturità”. In realtà, la storia continua a essere presente (lo si poteva capire già dalle simulazioni offerte durante l’anno dal ministero), molto presente, perfino nelle tracce relative all’analisi di testi letterari. E anche la filosofia non è assente, sia perché le domande su Dio, sulla bellezza, sulla “illusione della conoscenza” hanno a che fare con tale disciplina, sia perché ai candidati viene chiesto più volte di rintracciare ed elaborare argomentazioni (e la filosofia dovrebbe essere di aiuto, in questo).



La giusta battaglia sarebbe stata, allora, quella per avere un altro anno di tempo per assimilare i cambiamenti apportati all’esame. Ma su questo punto di voci se ne sono sentite poche.

La nuova impostazione della prima prova sollecita i candidati a comprendere i testi proposti (per combattere lo spettro dell’analfabetismo funzionale?) e a esprimere giudizi argomentati (il famoso “spirito critico” che oggi tutti invocano) su quanto presentato dal ministero, a partire da ciò che si è studiato e soprattutto da ciò che si è.



Che cosa è cambiato rispetto a prima? C’è il rischio che si attenui la dicotomia tra chi ha vissuto la scuola da protagonista e chi ha “dormito” per cinque anni sui banchi. Questa seconda tipologia di alunno avrà probabilmente vita abbastanza facile. Ogni traccia si sofferma su un unico testo e le consegne guidano in maniera piuttosto chiara i candidati.

Ma chi ha cercato di vivere in maniera seria e intensa il quinquennio di scuola superiore rischia di trovarsi in difficoltà. Mentre prima il saggio breve poteva comunque fornire vari spunti a un alunno intellettualmente vivace, adesso il rischio dell’appiattimento è dietro l’angolo.



Per come stanno adesso le cose (per come sono fatti i manuali, per come sono ridotti i “tempi di permanenza in classe”, per come sono impostate le verifiche e le valutazioni) è difficile trattare in classe molti temi in maniera approfondita e senza ricorrere a luoghi comuni.

Per fare un esempio: potrà sembrare strano, ma non è affatto scontato parlare seriamente di mafia insegnando la storia del Novecento. Due ovvietà sulla “trattativa Stato-mafia” possono essere ascoltate ovunque, ma quanto a entrare in profondità…

È pur vero che un alunno curioso e attento può essersi documentato da solo, ma se vogliamo parlare del lavoro del docente, bisogna dire che è ormai necessario abbandonare definitivamente l’idea di “fare tutto” (di cercare di coprire l’intero arco degli eventi o delle opere del XX secolo), affidarsi a manuali di storia molto snelli (dove sono?) e lavorare in maniera approfondita sul metodo con cui affrontare ogni aspetto della realtà, poi su alcuni documenti fondamentali e solo in terza battuta sulle “liste di eventi”. Ma in questo modo si riesce comunque a dare a tutti gli alunni un quadro generale su un’epoca storica (sul Novecento, in particolare)?

In ogni caso il punto è evidente: se ci si riesce, è giusto parlare in classe di armi non convenzionali o di industrializzazione, è giustissimo parlare di Gino Bartali, ma il vero problema è aiutare i giovani a uscire dai cinque anni di studio con un’idea sintetica e non banale sull’Italia, l’Europa, la scienza, la conoscenza, la cultura, la storia…

Il nuovo esame sembra forzare le cose in questa direzione, ma l’intero mondo della scuola è molto indietro. Sarà la volta buona per una discussione seria sull’educazione in Italia?

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