“In principio Dio creò il cielo / e la terra, poi nel suo giorno / esatto mise i luminari in cielo / e al settimo giorno si riposò”. Nel limpido incipit di Quasimodo, proposto come prima analisi del testo per gli esami di maturità del 2023, l’homo erectus guarda il cielo come un contemplatore, fin quando, a un certo punto della storia, riesce, “con la sua / intelligenza laica, / senza timore, nel cielo sereno / d’una notte d’ottobre”, a spedire in orbita lo Sputnik, mettendo “altri luminari uguali / a quelli che giravano / dalla creazione del mondo. Amen”.



Due “senza”, in anafora, segnano l’”intelligenza laica” dell’homo faber: “senza timore” (di Dio, s’intende), e soprattutto “senza mai riposare”. Dio “si riposò”, l’uomo no. L’animal laborans della Società della stanchezza, come la chiama Byung-Chul Han, deve funzionare, h24, sette giorni su sette. Già Nietzsche in Umano, troppo umano aveva osservato che “in nessuna epoca si attribuì maggior valore agli attivi, cioè ai senza riposo”. E Pirandello rincarava la dose nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore:



“Nessuno ha tempo o modo d’arrestarsi un momento a considerare, se quel che vede fare agli altri, quel che lui stesso fa, sia veramente ciò che sopra tutto gli convenga, ciò che gli possa dare quella certezza vera, nella quale solamente potrebbe trovar riposo. Il riposo che ci è dato dopo tanto fragore e tanta vertigine è gravato da tale stanchezza, intronato da tanto stordimento, che non ci è più possibile raccoglierci un minuto a pensare. Con una mano ci teniamo la testa, con l’altra facciamo un gesto da ubriachi.
– Svaghiamoci!
Sì. Più faticosi e complicati del lavoro troviamo gli svaghi che ci si offrono; sicché dal riposo non otteniamo altro che un accrescimento di stanchezza”.



Non stiamo parlando appena di letteratura: stiamo parlando della realtà, di questo modo di fare scuola, di questi svaghi estivi.

L’”intelligenza laica” è frenetica, eppure “dalle sue mani febbrili / non escono senza fine che limiti”, scrive Ungaretti tornando a invocare Dio nella “notte triste” della seconda guerra mondiale: “l’inferno s’apre sulla terra / Su misura di quanto / L’uomo si sottrae, folle, / Alla purezza della tua passione”.

Ma una guerra si dimentica in fretta e con lei le domande che fanno alzare la testa verso il silenzio della luna. Le insegne pubblicitarie – ce lo racconta Calvino in Luna e Gnac – ci offuscano la vista e le domande.

“Abbiamo veramente una dottrina infallibile della conoscenza e una nozione precisa dell’universo? Chi potrebbe darcela? La scienza. Ma questa si basa soltanto su fenomeni e rapporti; conosce la faccia, non il dentro delle cose”. Ecco un terzo “senza”, che aggiungerebbe Pirandello: senza timore, senza riposo e, paradossalmente, senza cielo. È una Rinunzia alla profondità: la terra rimane “piccola patria di piccoli enti, i quali dovrebbero intendere a procacciarsi quaggiù la possibile felicità, poggiando non più in cielo, ma in terra i propri ideali, senz’altro dimandare. Ma è possibile che la domanda non sorga se la terra rimane pur sempre circondata di cielo?”.

Al cielo si può rimanere Indifferenti chiudendosi in una casa borghese, dove “tutto era ripetizione” e “la vita non cambiava”: non succede niente se non intrighi, luminari artificiali anche stavolta, che nascondono la temutissima “oscurità”. La protagonista del brano di Moravia (seconda proposta per l’analisi del testo, tagliata maluccio, altrimenti sì che il romanzo farebbe volare, almeno per non soffocare) ha paura, qualora dovesse essere sfrattata dalla villa, di diventare improvvisamente “povera, sola, con quei due figli, senza amicizie ché tutti l’avrebbero abbandonata, senza divertimenti, balli, lumi, feste, conversazioni: oscurità completa, ignuda oscurità”.

Oltre le mura a cui i personaggi di Moravia sono abbarbicati almeno quanto maturandi e insegnanti (la borghesia, nel corso di un secolo, si è intanto mangiata i cuori di tutti), oltre i divertimenti che l’esame mette in pausa solo per un attimo, oltre le chat così sideralmente aliene dai versi di un poeta, non c’è nessuna luna e nessun cielo, non c’è altro da attendere. Nella catena evolutiva, l’uomo, che si era faticosamente eretto, si è incurvato definitivamente verso il suo telefono e il suo ombelico. La “noia” del pastore errante leopardiano è pericolosa, per questa “greggia” obbediente e insensibile alla luna. Così Marco Belpoliti nell’ultima traccia, scelta dalla quasi metà dei maturandi italiani (43%):

“Chi ha oggi tempo di attendere e di sopportare la noia? Tutto e subito. […] L’efficienza compulsiva è diventato uno dei tratti della psicologia degli individui. Chi vuole aspettare o, peggio ancora, perdere tempo? […] Attendiamo sempre, eppure non lo sappiamo più fare. Come minimo ci innervosiamo. L’attesa provoca persino rancore. Pensiamo: non si può fare più velocemente?”.

Ah, questi gggiovani… Sbrigatevi, non scrivete tanto, che sono già le 13. Non vorrete mica farci rimanere in attesa fino alle 3 del pomeriggio! Quello che dovete dire ditelo, tutto e subito. Non riuscite a scrivere più velocemente? Non superate le quattro o cinque colonne d’Ercole di questo mondo di carta!

Non ci interessa né l’oceano né il cielo, né per guardarlo né per conquistarlo: avete ricevuto testi brevissimi, domande rasoterra, tracce di attualità alla portata di qualunque disperato, nomi televisivi per i testi argomentativi. Chi sente il bisogno di andare a cercare versi e lune? Appena il 4% dei maturandi ha optato per Quasimodo: se l’Italia fosse una classe di 25 studenti, l’avrebbe svolta solo uno. Difficile, hanno commentato in tanti: e se il secondo Quasimodo è difficile, Montale allora cos’è?

Ogni anno si spendono quasi cento euro per tre grossi tomi di manuali di letteratura pieni di analisi testuali e poi le due analisi vengono svolte dal 13% dei maturandi, cioè da 3 alunni per classe: cari colleghi, ci sarà un problema, sì o sì? È il ministero che vive sulla luna o sono gli insegnanti che, a forza di rinchiuderli nei bunker dei paragrafi, non mettono gli studenti nelle condizioni di svolgerla?

Il programma non arriva a Quasimodo e Moravia, si obietta: ancora questa storia del programma?!? Vi supplico: qualcuno mi mandi questo fantomatico programma ministeriale, se lo trova da qualche parte! Sono vent’anni che si dovrebbe lavorare sulle competenze di lettura e di scrittura, sulla capacità di comprendere e interpretare un testo non noto, ma niente: “la vita non cambiava”, “tutto era ripetizione”. Se non c’è il paragrafetto da ripetere, lo studente va in tilt, e – quel che è tragico – va in tilt anche l’insegnante.

Lasciate stare la luna, sia vecchia sia nuova. Gironzolate nella gabbietta. Anche per il colloquio orale: i nodi concettuali ve li abbiamo dati, i collegamenti ve li abbiamo suggeriti. Tutti in coro, a ripetere la pappardella come un tormentone estivo: “Nodi concettuali / sempre più banali / e mi piace tanto tanto quando mi annoio / e tu mi fai l’esame pappardise”.

Mentre con la nostra “intelligenza laica” ci giochiamo cose serie come un paio di centesimi di voto in più, tipo un 89 al posto di un 87, pare che abbiamo perso “la speranza de l’altezza”. Altezza vuol dire profondità. Perché tutto, agli esami, si gioca nella profondità a cui può arrivare uno studente: nella sua attitudine al pensiero, nel serbatoio di testi a disposizione, nell’educazione a confrontare le parole con la realtà. Ma chi ha lavorato per cinque anni sullo sviluppo o sull’inaridimento della sua sensibilità?

Su questo quotidiano due mie ex alunne, maturate l’anno scorso, hanno svolto due splendide analisi del testo. Non studiano Lettere ma Biologia, la mattina dopo avevano un esame di Fisica e intanto organizzavano un torneo di beach volley. Un testo fa scintille quando incontra una persona che vive; per uno studente indottrinato a paragrafetti, una poesia rimane muta, e non resta che dirottare verso i luoghi comuni sui giovani “nell’era di WhatsApp”: esame di banalità superato.

Chissà se una “notte d’ottobre” come quella di Quasimodo, o anche una mattina d’estate, qualcuno alzerà la testa dai fogli e da WhatsApp e dalla villa e dalle feste e tornerà a guardare il cielo, “senza timore” dei giudizi altrui (mica di Dio: della commissione e del mondo) ma con “timore e tremore”. Speriamo ce ne sia almeno uno su venticinque ad amare ancora la poesia e la luna, a cantare con Lucio Dalla: “In questa notte calda di ottobre, apriti cuore”.

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