Nella strana architettura dei testi per la maturità 2023, strana perché i testi sembrano in qualche modo rincorrersi e sovrapporsi, tra il politicamente corretto e la excusatio non petita del ministro in capo all’Istruzione e al Merito per avere sottratto gli scritti ad alcune fasce di alunni (comuni alluvionati), troviamo due interessanti occasioni di riflessione di ambito storico.



La proposta B3, testo argomentativo, riecheggia alcuni drammatici interrogativi di Oriana Fallaci: “La storia è fatta da tutti o da pochi? Dipende da leggi universali o da alcuni individui e basta?” Rischiando di considerare la storia la scena dell’assurdo, la scrittrice risponde privilegiando il primo corno della questione: “Non riesco a escludere insomma che la nostra esistenza sia decisa da pochi”. Il che è vero fino a un certo punto o forse per nulla, e spiace davvero che la brillante Oriana non se ne sia accorta, almeno nel brano in questione; infatti la storia (che non è altro che la ricostruzione dei fatti e degli avvenimenti che lo storico offre ai propri contemporanei) è piuttosto il luogo dell’imprevedibile e del gratuito che talvolta assume le fattezze simpatiche del “naso di Cleopatra” che, se fosse stato più corto, avrebbe permesso un diverso andamento del processo di dissoluzione dell’impero romano.



Si tratta di un argomento messo in campo dopo Pascal, tra gli altri, da E.H. Carr (Sei lezioni sulla storia), allo scopo di destituire di fondamento il ricorso alla casualità nell’ambito della comprensione delle vicende storiche. Il risultato della battaglia di Azio, argomenta lo storico inglese sulla scia del filosofo seicentesco, fu dovuto non già al tipo di cause postulate dagli storici, bensì all’infatuazione di Antonio per Cleopatra. Hic Rhodus, hic salta, direbbe Marx, cioè dimostratemi che è sempre così. Ma così non è. Se si estendesse questa visione del tempo e dello spazio per cui basta un raffreddore o un’increspatura del terreno a modificare radicalmente il corso degli avvenimenti, si rischierebbe di cadere nel fatalismo. L’avvenimento fortuito è imprevisto, ma non estraneo alla storia perché rientra nel gioco delle probabilità.



A questo livello, per esempio, tra i fattori che decidono delle vittorie o delle sconfitte di un generale impegnato in una campagna militare può essere compreso il suo stato di salute o lo stato dei luoghi dello scontro (Annibale si riposò a Capua, Napoleone fu insidiato dalla pioggia che rese molli i campi prima di Waterloo). Ma si tratta di un quadro di eventualità che lo storico può mettere in azione per comprendere l’oggetto della storia, senza farla sconfinare nella logica romanzesca.

Dunque, per riprendere gli interrogativi della traccia B3, chi fa la storia? I vincitori che la scrivono sulla pelle e col sangue dei vinti, direbbero alcuni. Gli uomini che hanno idee o meglio ideali, risponde lo storico Federico Chabod, nella precedente traccia B1: “Il principio di nazionalità era una gran forza, una delle idee motrici della storia del secolo XIX”. Bello l’ideale nazionale che si collega al tema della libertà (Cavour) e a quello dell’umanità (Mazzini). Il dibattito su che cosa sia una nazione ha attraversato tutta la storiografia contemporanea. In effetti, per certi aspetti le nazioni hanno anticipato lo Stato. Per lungo tempo le nazioni non hanno avuto configurazione statale. Nazioni senza Stato sono quelle comunità territoriali con la propria identità e desiderio di autodeterminazione incluse nei confini di uno o più stati, con i quali, nel complesso, non si identificano. Nelle nazioni senza stati, il sentimento di identità si basa generalmente sulla comunanza di lingua, religione, cultura e storia. Era in questo orizzonte, per esempio, che si collocavano i Discorsi alla nazione tedesca di Fichte come reazione all’invasione napoleonica dei territori tedeschi.

Talvolta, inoltre, per indicare la radice profonda della semplice “nazione”, si usa il termine “etnia”. Che cosa s’intende per radice etnica? Una base etnica è un insieme condiviso di miti, memorie, territorio, valori e simboli. Fu il filosofo Ernest Renan che nel 1882 coniò la definizione forse più calzante di nazione. Essa presuppone un passato, ma si riassume nel presente attraverso un fatto tangibile: il consenso, il desiderio di continuare a vivere insieme. “L’esistenza di una nazione è un plebiscito di tutti i giorni”. Eppure alla nazione, alle nazioni, si sono sovrapposti in epoca contemporanea gli Stati-nazione. Dalla fine dell’Ottocento in Europa, e non solo, nello Stato nazionale si vide il culmine o la raggiunta completezza dello Stato moderno. Lo Stato-nazione divenne un valore assoluto che giustificò moralmente i mezzi necessari alla sua affermazione: i supremi interessi nazionali divennero l’ultimo obiettivo della politica, al punto che le guerre degli Stati-nazione divennero il crogiolo delle nuove società contemporanee. Purtroppo i grandi esaltatori del principio nazionale, i Cavour, i Mazzini, i Garibaldi, furono i primi a cedere di fronte all’avanzare del principio statalistico, lasciando ai cattolici manzoniani o rosminiani il compito di tenere unita la nazione allo Stato secondo il sacrosanto principio della libertà dei corpi intermedi “nello” Stato e non “dallo” Stato come vorrebbe l’ideologia marxista.

Ma chissà se tutto questo ragionamento, certo molto approssimativo, possa essere stato condiviso da qualche giovane e promettente maturando. C’è comunque da augurarselo!

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