Vivere con una trentina di ragazzi maturandi in una convivenza gli ultimi giorni che precedono l’esame di Stato. Siamo stati in una villa in piena campagna pesarese, ed è una sfida che si è giocata in queste giornate intense: si può vivere la preparazione alle prove della maturità con l’ipotesi di non ridursi a fare una performance, ma di prendere coscienza – anche e soprattutto in questa delicata occasione del passaggio all’università o al lavoro – della totalità della propria persona e della realtà che ci circonda?
È possibile che alla domanda che chiude in una solitudine spaventosa – “come posso affermare me stesso?” – si possa sostituire un’altra domanda, di respiro e di apertura: “come posso comprendere che cosa sto a fare al mondo e come posso servire il tutto, come posso essere utile al tutto?”, scoprendo che vivere l’esame così è assolutamente conveniente?
Una ragazza (ma dietro lei potrebbero esserci mille volti) ammessa col massimo dei voti (media del 10) diceva che si sente soffocare per le aspettative che la famiglia, i prof, la scuola hanno su di lei. Non riesce più a portare il peso di questi occhi che attendono le sue prove brillanti.
Un’altra raccontava che è difficile, in questo periodo di passaggio, vedere dei segni chiari di quella che può essere la sua strada futura. Ha una tremenda paura di sbagliare. “E se scelgo l’università che non fa per me?”.
Nel vivere quelle giornate studiando insieme, con professori di tutte le materie che gratuitamente stanno con te per aiutarti e trascorrono una settimana accanto al tuo bisogno di sapere, con ragazzi universitari che ti offrono la loro esperienza, si comincia a vedere una prospettiva diversa. Innanzitutto uno si chiede: “Ma perché lo fanno?”.
E nel tempo si impone sempre più una presenza che ti fa vedere – più che capire a parole – che al centro non c’è quello che sai fare, ma ci sei tu e la tua ricerca di senso e di felicità per tutta la vita. Qualcosa che misteriosamente ti abbraccia. Come spiegava il prof. Prosperi ai maturandi: “Per potersi domandare: ‘A cosa mi chiama il Mistero nella vita?’, uno deve aver fatto esperienza che c’è un Mistero che regge la vita. E che questo Mistero è qualcosa a cui si può voler dare la vita. Ma per dare la vita al Mistero (Mistero vuol dire che io non lo conosco fino in fondo, non posso conoscerlo fino in fondo), uno deve fare esperienza del fatto che questo Mistero, questo ‘tu’ misterioso che è entrato nella mia vita, è un bene. È un bene, è una possibilità di bene per me. E allora, se noi siamo sicuri che c’è questo Mistero, che questo Mistero è un bene ed è un bene per me, è per me, non siamo più soli e quindi abbiamo meno paura del futuro”.
Ecco: una comunione che ti mette in contatto col tuo cuore, che ti sta vicino e non fa dipendere la tua felicità e realizzazione dalla scelta giusta o dalla ottima performance. Si può vivere così.
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