Caro direttore,
gli scritti sono stati archiviati. Siamo al giro di boa degli “esami di Stato” secondo la dicitura ufficiale, “esami di maturità” secondo quella tradizionale, ma divenuta ufficiosa.

Le implicazioni esistenziali delle due espressioni sono qualitativamente diverse. Dal mio particolare punto di osservazione (sono commissario interno in uno scientifico) mi sembra evidente quanto la prima sia descrittiva del modo con cui i docenti affrontano questo momento, mentre la seconda appartenga strutturalmente agli studenti.



Gli insegnanti, infatti, appaiono segnati dal disincanto, il weberiano effetto collaterale della società moderna e burocratizzata: turni di sorveglianza, controllo dei punteggi, messa a punto delle griglie di valutazione, fino ai bolli in ceralacca, vero e proprio cascame di un mondo che non c’è più e, guarda caso, unico momento in cui gli adulti sembrano ancora accendersi (o forse è semplicemente per il fatto che, apposto l’ultimo timbro, si è ufficialmente in vacanza?).



I ragazzi, invece, sembrano ancora non contaminati dal déjà vu fatto di rapporti sociali calcolati razionalmente attraverso pratiche sistematiche. Dietro la loro ansia, la loro trepidazione, o semplicemente, la voglia di sapere “com’è andata”, si vede – nitida, in filigrana – l’attesa di qualcosa di grande che sta per accadere come il passaggio all’età adulta, al mondo dove si fa sul serio perché il mondo, a sua volta, li attende con un posto per loro.

Ma dove riporre in questo frangente tutto il peso di tale attesa se non in quegli adulti che sono chiamati ad ascoltarli attraverso quello che scrivono e dicono? È una grande responsabilità che, però, spesso i docenti assumono come una maschera dietro la quale c’è il loro non attendersi nulla perché, in fondo, “li abbiamo valutati tutto l’anno”, perché “facciamo in fretta”, perché “tanto so già cosa ha scritto”, perché “facciamo in modo di non avere ricorsi”, perché “uffa!, le solite cose”; e così, piano piano, l’esame si svilisce nei fatti, infatti i ragazzi vanno a cercare il soddisfacimento della propria attesa in altri ambiti come i test di ammissione all’università.



Non mi sento diverso dai miei colleghi, né, soprattutto, migliore di loro, però questa incongruenza la accuso sempre di più ogni anno che passa e non riesco a rassegnarmi. Mi è evidente che l’esame di maturità è necessariamente l’esito dell’incontro tra due attese: quella del ragazzo e quella dell’adulto. Ma se in uno dei due l’attesa si è rattrappita o è inesistente, allora siamo all’esame di Stato: prestazioni e misurazioni. In questo caso che importanza avrebbe un docente umano? Non potrebbe essere degnamente sostituito da un docente-macchina? Negli esami Invalsi (importanti, non metto in dubbio) succede già così di fatto: prestazione, misurazione.

Ed eccoci alle domande.

Come può essere un esame che non tradisca l’attesa dei ragazzi e l’attesa degli adulti?

La discrepanza anche di risultati tra prove Invalsi ed esami di Stato non autorizzerebbe a pensare a qualcosa di diverso per questi ultimi se lo scopo che perseguono è burocraticamente identico?

(Lettera firmata)

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