Caro direttore,
la cosa più bella della prima prova dell’altro ieri? Una ragazza corre trafelata verso la mia cattedra, ha gli occhi lucidi, il respiro affannato e un principio di tachicardia. Ansante mi chiede: “Professore, mi scusi, ho scritto due volte la stessa parola di seguito. Devo ricopiare tutto il compito?”



Io, commissario esterno, quindi a lei sconosciuto, che se non mi diverto nel lavoro mi annoio e divento triste e stanco, la guardo col cipiglio austero del buon Furio di verdoniana memoria e le rispondo: “Temo di sì signorina. La cosa è piuttosto grave in un esame di Stato. Se ne rende conto da sola, vero?”

Lei alza lentamente il viso dal foglio, mi guarda terrorizzata, si rigira mesta per riconquistare il suo banco come fosse una condannata in attesa di tortura, e a passi lenti e capo chino se ne torna affranta e sconfitta al suo posto. Al che, con la fatica dei miei augusti quarant’anni, ho a quel punto ritenuto opportuno dover alzare le mie terga dalla scomoda cattedra per seguirla verso il suo “patibolo”. Le faccio allora notare dolcemente che si tratta di una bazzecola, che può tranquillamente fare un segno sulla parola da cancellare e andare avanti nel suo tema. Le dico anche che si sarebbe dovuta rilassare un po’ di più, perché il mondo è un filino più grande dei nostri errori. Anche all’esame di maturità. Lei scarica di getto la tensione e abbassando di colpo il foglio mi fa: “A professò, m’ha fatto pijà n’corpo! Tra ’npò dovevate chiamà l’ambulanza!”



Io scoppio a ridere. Lei ride a sua volta. E si è andati avanti.

Cari giovanotti, lasciatevi il diritto di sbagliare. Difendetelo con le unghie e con i denti da chi vi vorrebbe perfetti e privi di macchie. E se a volervi perfetti siete voi stessi, ridete ridete ridete. Non c’è altro modo per distaccarvi dai cattivi progetti e prendervi veramente sul serio.

Buona maturità!

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