Dallo scorso mese di ottobre si chiama ministero dell’Istruzione e del Merito, in sigla Mim, e la cosa aveva suscitato alzate di scudi per via di quel “merito” che a qualcuno (alla sinistra in particolare, paladina della scuola di massa all’insegna del “6 politico” di sessantottina memoria da cui derivano tanti mali di cui soffre oggi) suonava come antiquato o addirittura provocatorio.
Non ero di quell’idea, ma a conti fatti debbo ammettere di aver avuto torto. Il merito, infatti, nella nuova denominazione nulla ha a che fare col verbo meritare, nel senso di ottenere qualcosa di buono in cambio di un impegno ad esso adeguato. Sbagliavo nel ritenere che il dicastero governato dal ministro Giuseppe Valditara avesse posto in tal modo il primo tassello per un cambio di rotta. Diamo per buono che i cinque mesi trascorsi fra la sua nomina ed il varo dei decreti per l’esame di maturità 2023 siano stati insufficienti, così come i successivi tre per giungere fino ad oggi, per riempire di significato il nuovo indirizzo che l’intero governo aveva annunciato di voler dare al ministero. In questo senso, concediamo a Valditara il beneficio degli esami di riparazione.
Tuttavia mi ha sorpreso quanto da lui dichiarato ufficialmente poche ore fa, alla vigilia degli esami (ora si chiamano “Esami di Stato di istruzione secondaria superiore”) che da oggi, con la prova scritta di italiano, impegneranno oltre mezzo milione di studenti suddivisi in quasi 28mila classi per 14mila commissioni. Le sue parole: “Il fine della prova orale sarà anche quello di comprendere meglio le potenzialità e le predisposizioni del ragazzo in base alle scelte future, e per questo i commissari punteranno molto sulla interdisciplinarietà in un colloquio molto pacato e positivo”. Dichiarazione che fa coppia con quella rilasciata pochi giorni prima da Flaminia Giorda, dirigente dello stesso Mim, quando ha parlato di “dialogo e non di tante piccole interrogazioni”.
Ecco il senso del messaggio: cari ragazzi, state tranquilli perché, più che una prova di maturità, sarà uno scambio informale di idee, una simpatica forma di saluto a professoresse e professori che del resto, conoscendovi bene e avendovi già interrogato durante gli anni precedenti, tanto da avervi portati fin qui, non hanno nessuna intenzione di bocciarvi perché significherebbe contraddire quanto hanno scritto e sottoscritto per ammettervi all’esame. Quindi il merito non c’entra un fico secco, specialmente in sede di valutazione conclusiva del quinquennio.
Ma allora, mi chiedo forse con un pizzico di ingenuità, perché sottoporre dirigenti, insegnanti, studenti e perfino genitori a questo vacuo supplizio di “indagine” di cui si conosce già la conclusione (il 99,9 per cento dei candidati otterrà il diploma, così come accade ormai da alcuni decenni)? Non sarebbe logico, naturale, perfino obbligatorio cancellare una volta per sempre – alle superiori come alle medie di primo grado, dove il discorso non cambia – questa che suona con tutta franchezza come una presa in giro, una collettiva finzione col marchio di Stato?
Gli appelli ministeriali alla calma, alla tranquillità, alla pacatezza suonano fuori luogo, perché da tempo i nostri 18-19enni sono molto meno “poverini” (per usare l’azzeccata definizione che della pedagogia imperante ne ha dato Gianfranco Lauretano su queste colonne pochi giorni fa) di quanto gli adulti siano inclini a pensare. Forse, azzardo, per mettersi a posto la coscienza. Poverina, semmai, è la scuola ridotta ad asilo nonostante chi la frequenti abbia ormai l’età per votare.
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