Le vicine prove della maturità si chiamano ora “Esami di Stato di istruzione secondaria superiore” forse perché siamo restii a pensare che gli studenti possano essere “maturi”, anche se svolte da maggiorenni, per una cadenza dei cicli scolastici che qualcuno comincia a pensare sia troppo lunga. Ma tant’è.
Le prove scritte, da poco ridisegnate, offrono uno sguardo su come consideriamo i ragazzi, una buona finestra sociologica per capirne la sottesa idea educativa, pur se difficilmente permettono alle commissioni di capire se sono davvero maturi. Le tipologie offerte per la scrittura del “tema” (parola in realtà obsoleta per ciò che viene chiesto) saranno anche quest’anno tre: analisi di un testo letterario proposto; produzione di un testo argomentativo a partire da uno o più stimoli; riflessione su tematiche di attualità, quello che una volta era il testo più amato soprattutto da chi studiava poco, con la sua possibilità di mettere insieme sempre e comunque due pensieri, ma anche con le trappole tipiche del tema libero.
La novità più evidente che emerse la prima volta in cui il nuovo format fu proposto è la serie di indicazioni e domande che accompagnano gli studenti alla stesura del testo. Alcune sono quasi ingenue, adatte forse agli alunni di quinta elementare, ad esempio questa, che fa tenerezza: “Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte”. Altre sono imbeccate così smaccate da far pensare male, come questa, in un testo del 2022 sulle nuove tecnologie: “Nel tuo percorso di studi hai avuto modo di affrontare queste tematiche e di riflettere sulle potenzialità e sui rischi del mondo iperconnesso? Quali sono le tue riflessioni su questo tema così centrale nella società attuale e non solo per i giovani?”. Questa è solo una delle domande-guida, di fronte alle quali al candidato non rimane altro che eseguire pedissequamente.
Perché si è imboccata questa direzione? L’impressione è che sotto sotto ci sia una scarsa considerazione dei ragazzi stessi. Così, rispondendo a una sorta di pedagogia protettiva, è come se si cercasse di risolvere loro i problemi prima che si pongano, per evitare chissà quali traumi pedagogici, come ad esempio il sorgere, nella tipologia del testo letterario, del nome di un autore non affrontato in classe: avvenne qualche anno fa con una poesia di Giorgio Caproni, un genio sconosciuto ai programmi scolastici.
Si sta insomma profilando una sorta di pedagogia del “poverino”, tesa ad evitare sforzi eccessivi di cui, riteniamo, i nostri figli non sono capaci. Il che è strano, perché dall’altra parte la scuola si sta sempre più assestando su una richiesta di tipo unicamente performativo, contrapposto a quello educativo, come se dicessimo che il loro valore consiste solo nella capacità di superare interrogazioni, compiti in classe, test…
La sensazione che viene da questa pedagogia del “poverino” è confermata dal pasticcio che sull’esame di Stato si è combinato nelle province recentemente alluvionate di Romagna.
Su richiesta di alcuni sindaci, a iniziare da quello di Ravenna, il ministero ha abrogato per quelle zone le prove scritte di terza media e delle superiori: poiché le scuole sono state chiuse una settimana di maggio, la vigilia (letteralmente) delle prove scritte ha visto apparire la famigerata circolare che cancellava gli scritti perché gli studenti, poverini, avevano vissuto l’esperienza drammatica dell’alluvione.
È noto dalle cronache che questa decisione, che puzza di populismo, è stata accolta come un’offesa da gran parte degli studenti stessi, preparati per mesi ad affrontarla, che avrebbero anche voluto provarci nonostante l’alluvione: i pochi contenti sono stati i lavativi, di cui però si registra una minoranza insignificante. Gli insegnanti hanno anche imbastito una immediata, ma vana, raccolta firme per il ripristino degli scritti. Troppo tardi.
Evidentemente l’alluvione non ha insegnato niente a sindaci & ministri: sono stati proprio i ragazzi in quei giorni, senza nessun ministero che li imbeccasse, a formare squadre che, vanga in spalla, hanno iniziato subito a spalare, tanto che se le città sono state tempestivamente liberate dal fango in gran parte è stato merito loro. Siamo ancora dentro l’annoso problema educativo, che sarà sempre e solo un problema degli adulti. Da una parte scuola e famiglia tese a proteggere i giovani dalla realtà, dall’altra uno schematismo educativo schizofrenico, che prima li affonda con richieste performative pesanti, e poi ritiene che non siano in grado di affrontarle.
C’è infine un ultimo elemento che potrebbe gettare luce sul metodo che sta emergendo nella forma attuale degli esami. Si tratta di un vasto movimento di standardizzazione della scuola e del sistema di istruzione. A ben guardare ciò che richiedono questi scritti è molto in linea con le scuole dell’Europa settentrionale, quelle della pedagogia anglosassone, teutonica e scandinava. Test, risposte guidate, schemi, regole, strutture standard a cui adeguare il proprio discorso. Il vecchio, buon “tema”, che puzza di umanesimo, in cui uno studente confrontandosi con la tradizione di lettere, di lingua e di pensiero, esprime le sue idee e anche, un po’, la sua anima, è ovviamente considerato vetusto dai cervelloni che sfornano le nuove prove. Troppo italiano, classico, perciò anarchico, irrispettoso delle regole e fuggitivo dallo standard, come tutti pensano di noi.
Si va verso una normalizzazione delle prove che vira in una direzione definita, poiché da anni ormai la pedagogia vincente è quella, tenuta come modello persino nel copiarne la lingua. Stupisce che sopravviva ancora la crudele tipologia A, quella del testo letterario, dove talvolta si è chiesto di paragonarsi addirittura con una poesia. Ma durerà poco.
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