Caro direttore,
la clamorosa protesta delle studentesse del Liceo Foscarini di Venezia spinge ad una presa d’atto definitiva: questo esame è sbagliato e fa sbagliare tutti. In questa vicenda è evidente che tutti hanno sbagliato: in primis il presidente della commissione, poi i due docenti di greco (uno interno e l’altro esterno) e tutti gli altri membri, e infine le studentesse. A questo scontro non si doveva arrivare.



Però tutte le persone citate, che in eguale o diversa misura hanno contribuito all’esito della vicenda, sono in realtà vittime d’un meccanismo contraddittorio e da rivedere completamente. L’esame di Stato non è un test d’ammissione, non è un concorso: è il traguardo di un cammino di crescita di uno studente attentamente seguito e monitorato negli ultimi tre anni di scuola superiore. Il candidato non è un numero, non è un perfetto sconosciuto che si presenta davanti a una commissione giudicante: ha frequentato regolarmente le lezioni, è stato ripetutamente valutato, ha riportato alla fine del cammino la famosa “media” dei voti da cui scaturiscono i crediti scolastici, che dovrebbero fotografare il livello cui è giunto.



In realtà non è così, per vari motivi: quei crediti, infatti, sono la somma del punteggio di tre anni e portano in sé quasi lo stigma di una situazione che, magari, era ancora acerba al terzo, mentre poi è diventata totalmente diversa in un processo di maturazione negli anni successivi. In ogni caso, tutto questo cammino frutterà al massimo 40 punti: i restanti 60 il candidato se li gioca all’esame (prima, quando questo esame è nato, l’incidenza dei crediti era ancora minore!).

Dunque il candidato si presenta davanti alla commissione (dove ci sono anche tre dei suoi docenti) con questo malessere interiore: tutto quello che ha fatto in tre anni, l’impegno che ha profuso, la fatica, le difficoltà superate, tutto questo vale meno della metà del voto di diploma. Questo malessere interiore è anche dei suoi docenti che hanno faticato con e per lui, che si sono più o meno dedicati al suo percorso investendo tempo e risorse umane e intellettuali: in fondo anche tutto il loro lavoro vale meno della metà del punteggio finale.



Ne scaturisce dunque un incontro-scontro più o meno traumatico con i docenti esterni, portatori, in qualità di rappresentanti imparziali del sistema, di un potere spropositato, soprattutto se gestito male, senza la dovuta elasticità e comprensione. Essi avranno il privilegio di giudicare dei candidati che non conoscono. Correggeranno le loro prove scritte senza nemmeno averli sentiti parlare, fidandosi o non fidandosi delle sommarie indicazioni fornite dai membri interni.

Ecco allora che il problema, per questi ultimi e per gli studenti, diventa la famosa “media” di ammissione: come fare perché il voto coincida il più possibile con essa? Per gli esterni, invece, questa media deve contare fino a un certo punto e va presa con le molle: l’esame è l’esame, anche perché altrimenti cosa stiamo a fare qui?

Il conflitto si fa più aspro nella valutazione, in particolare, della seconda prova, quella più temuta, ma anche quella più specifica in relazione all’indirizzo scelto. È significativo che il problema sia stato clamorosamente sollevato in un liceo classico davanti ad una versione di greco. Il problema, infatti, è che gli studenti del classico, in gran parte, oggi non sanno tradurre: il testo greco o latino è per moltissimi un mistero solo scarsamente decifrabile. In pagella la famosa media si alza (bisognerebbe che anche gli studenti avessero l’onestà di ammetterlo) perché il voto traballante o anche insufficiente degli scritti viene compensato da quello degli orali; i docenti hanno accettato questo compromesso al ribasso e si va avanti così, ma il problema resta tutto e i nodi vengono al pettine proprio all’esame di Stato, che non ammette scorciatoie: con la famigerata e temuta “versione” bisogna fare i conti e ci si giocano 20 punti.

In questo caso carta canta e un commissario eccessivamente rigoroso potrebbe impuntarsi ed applicare inflessibilmente la griglia di correzione. Quando uno studente chiede il rispetto per la propria media, risultato magari di quel compromesso di cui si diceva, ha una coscienza onesta del proprio livello effettivo oppure si nasconde dietro un numero che solo in parte corrisponde alla realtà?

Sulla difficoltà della seconda prova e sui risultati spesso insufficienti di essa (ovviamente non solo al classico, ma un po’ in tutti i tipi di indirizzi), occorrerebbe fare una seria e anche in questo caso onesta riflessione. Quelle che erano dette discipline d’indirizzo oggi hanno perso la loro centralità, in favore di un modello di scuola dove si studia di tutto un po’, anche se in modo più complesso. Diciamo che la scuola superiore è diventata una scuola media dai programmi più approfonditi.

Tornando da dove siamo partiti, imparare a tradurre dal greco richiede tempo, concentrazione, dedizione esclusiva. Non se ne esce se non così. Ora, a parte il fatto che in genere i giovani di oggi sono sempre meno disponibili a dedicare spazio allo studio, come faranno a coltivare le materie d’indirizzo (sulle quali si svolgerà la seconda prova che vale 20 punti all’esame) se queste sono sullo stesso piano di tutte le altre? O addirittura se ad esse (come avviene negli indirizzi sperimentali) sono state sottratte delle ore in favore di altre discipline? E come potranno farlo in una scuola che li distrae continuamente con progetti di vario tipo, PCTO, orientamenti, lavori aggiuntivi di educazione civica, test universitari da preparare durante l’anno scolastico?

Insomma, il quadro è piuttosto complesso. La protesta delle ragazze di Venezia, pur essendo sbagliata e figlia di uno sbaglio complessivo, è quanto mai opportuna e va tenuta in considerazione. Le tre studentesse vanno in qualche modo ringraziate per questo loro essere state sopra le righe e avere anche solo per un attimo fornito al mondo della scuola uno stimolo alla riflessione. Del resto è forse solo grazie a questi shock che l’elefantiaco sistema potrebbe accorgersi, finalmente, che qualcosa va modificato.

Detto questo, aggiungo che, pur non avendo dati concreti in mano, posso intuire quello che è accaduto e lo posso fare perché una cosa simile è capitata anche a me diversi anni fa, quando una mia alunna (c’erano ancora i tre scritti, il credito scolastico era inferiore e ciascuna prova assegnava un massimo di 15 punti), avendo già raggiunto il punteggio di 60, voleva fare quello che hanno fatto le ragazze veneziane, anzi, non voleva proprio presentarsi. Perché? Perché non aveva intenzione di sottoporsi al rito dell’orale. Il fatto è che aveva percepito la profonda disarmonia che si era verificata all’interno della commissione, aveva sentito le discussioni, le liti furibonde al momento di assegnare il voto dei vari colloqui. Non voleva essere coinvolta in questo gioco al massacro. Riuscii a convincerla, anche aiutato della madre. Alla fine si presentò, sostenne l’esame e uscì con un 98.

Queste crisi accadono molto spesso e a volte, raramente per fortuna, esplodono in modo clamoroso. Dipendono dal fatto che questo esame va a valutare studenti che per gli uni (i membri interni) sono fin troppo noti, per gli altri (gli esterni) sono dei perfetti sconosciuti. Se il presidente di commissione non ha sufficiente competenza o carattere e non riesce ad impostare una linea chiara e condivisa, se tra i membri esterni o interni si trovano docenti che interpretano molto male lo spartito, il risultato è una cacofonia penosa e imbarazzante, che trasforma il famoso rito di passaggio in un inferno.

Infine, sbaglia il docente esterno che si arroga il diritto di correggere le prove come una macchina che segue una griglia prestabilita. Anche perché questa griglia ha spesso dei descrittori del tutto astratti. Al tempo stesso sbaglia il docente interno che fa la chioccia, che si sente il paladino dei suoi studenti, che è pronto a tutti gli espedienti più meschini pur di far uscire i suoi ragazzi col voto che si aspettano. Le sue motivazioni possono essere molto oneste o narcisistiche, ma la sua posizione è errata: se questo è un esame, deve poterlo essere davvero e un esame presuppone anche la prova sbagliata, la difficoltà imprevista, l’insuccesso o comunque il non pieno successo. Bisognerebbe educare i ragazzi aiutandoli a capire e a prevedere anche questa evenienza e a saper trovare le risorse umane per affrontarla. In ogni caso bisogna aver chiaro che non ci può essere un premio alla carriera già fissato, anche perché questo premio è stato già riconosciuto con i crediti assegnati sulla base del percorso dell’ultimo triennio. Il resto ce lo si gioca. Oppure non si gioca proprio, e allora aboliamo l’esame. Tertium non datur.

(Lettera firmata)

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