Da qualche anno sulla Storia si è ingaggiata una curiosa battaglia. Le varie riforme del sistema scolastico che si sono succedute negli ultimi vent’anni l’hanno presa di mira, come fosse un problema. Ridotta ai minimi termini, smontata e rimontata a bella posta, sulla Storia se ne son dette di cotte e di crude. E ogni volta si è levato di contro il coro dei suoi difensori.



L’ultimo episodio è stata la cancellazione, tra gli scritti della maturità, della prova storica. E anche in questo caso si sono levate le voci critiche, a cominciare dal manifesto firmato dalla senatrice Segre, da Camilleri e da altri cinquantamila.

Fin qui la cronaca, cui va aggiunta l’audizione nella commissione Istruzione pubblica del Senato, qualche giorno fa, del prof. Settis e del prof. Serianni, con all’ordine del giorno proprio i pro e i contro dell’eliminazione del tema di Storia. Il primo favorevole al ripristino della prova e all’estensione dell’insegnamento nelle scuole italiane, il secondo, padre della sparizione, nella sua veste di presidente della commissione per la riforma dell’esame di maturità istituita dall’allora ministro Fedeli. La ragione immediata e un po’ superficiale di tale decisione è stato il pochissimo appeal che la prova aveva presso i maturandi (solo l’1 per cento svolgeva quel tema) e l’improponibilità di temi astrusi e lontanissimi dalla sensibilità moderna dei giovani, poco inclini ad interessarsi dei problemi del confine orientale d’Italia tra il ’45 e il ’54, del Patto di Londra e perfino delle guerre ottocentesche del ’48, del ’59 o del ’66.



Boh… comunque la si prenda la questione così posta appare interessante come un mazzolino di ortiche nelle mutande e probabilmente qualsiasi considerazione laterale è perdente in partenza, perché i buoi sono già scappati da tempo o son già finiti sulle tavole imbandite in forma di bistecca.

Non possiamo tuttavia non rilevare un equivoco di fondo, che forse è l’equivoco che sta ammazzando la cultura nel suo complesso e nella sua anima (peggio, la sta riducendo a ridicola macchietta). Destrutturatori e difensori della Storia (ma questo vale per ogni sapere umanistico) sembrano accapigliarsi intorno alla questione se la Storia serva o no. Vivaddio, come diceva a noi studenti un grande professore di letteratura italiana qual era Guido Bezzola, si può vivere magnificamente anche senza sapere chi è Porta o senza aver mai letto la Lettera semiseria di Berchet… E dunque si può ignorare – come dimostrato pubblicamente da alcuni parlamentari – che Firenze è stata capitale d’Italia per qualche anno con Torino, prima che i Bersaglieri facessero un buco nelle mura leonine per conquistare Roma (un’ex ministra interrogata sulla data in cui Roma è diventata capitale d’Italia aveva risposto che ce l’aveva sulla punta della lingua…). Posta così la questione – se la Storia serve – beh, non porta ad altra risposta che forse serve giusto a non far fare brutte figure ai ministri.



Vi è insomma, sia nei detrattori che nei difensori, un approccio funzionale alla Storia, da anime belle, per cui – con argomenti spesso simili e simmetrici – la Storia è ridotta ad ancella della politica nella sua presunzione formatrice di bravi cittadini, liberi e capaci di decidere. Come dire che un vero democratico deve almeno sapere chi è Tocqueville per sapere come votare. No, i cittadini decidono lo stesso.

La questione è un’altra ed è appunto laterale al dibattito in corso: ciascuno di noi è Storia, nella sua corporeità (Le Goff diceva che il nostro corpo è la nostra Storia), nella relazione con chi amiamo, nella solidità del tempo e del luogo in cui le nostre vite si sono storicizzate, nel rapporto misterioso che lega i vivi e i morti e nella percezione stessa della nostra finitezza.

Verrebbe da dire che si vuol negare la Storia innanzitutto perché essa ha a che fare con la morte, il grande tabù della nostra contemporaneità. Insomma, e questo intimorisce i benpensanti, è il terreno in cui il relativo e l’assoluto trovano un linguaggio comune, e si raccontano. La Storia è, in questo senso, l’unico antidoto ad una illusoria esistenza utopica.

Come tutte le cose che non attengono all’Utile, ma al Bello e al Buono, dovrebbe essere coccolata, potenziata, resa pervasiva a partire dal latte materno. Non ci dovrebbe essere materia che non abbia una dimensione intrinsecamente storica, in cui le date e i fatti non siano la scorciatoia anemica di commissari così aridi e forse anche segnati da patologie esistenziali da tormentare gli studenti con temi impossibili, ma i riferimenti, i segnalibri di un percorso che ci appartiene e a cui apparteniamo, come la stella e la croce che, sulla lapide del camposanto, dicono la nascita e la morte dei nostri nonni, giusto sotto il nome e il cognome.

C’è da chiedersi se tale anoressia della Storia non sia colpa, un poco, anche degli storici. Troppo silenti, e nel silenzio, troppo ciambellani di corti varie, affascinati dai pulpiti televisivi, impegnati a difendere gli orticelli accademici che, tra l’altro, si restringono sempre più. Perché, se tanto ci dà tanto, dopo il tema di maturità, saranno le accademie a far le spese di questa presunzione a-storica. Già si insegna, ad esempio nelle accademie d’arte, la didattica dell’arte, senza un’ora di Storia. Per cui dove la mettiamo la Belle Époque? E Toulouse Lautrec potrebbe benissimo essere vissuto nel Cinquecento… tanto non è importante.

Riaffermare la centralità della Storia non è dunque questione di un’ora in più o di un tema sgangherato che ricompaia nelle buste d’esame. Significa semmai riaffermare l’ineliminabilità di una dimensione identitaria che ha a che fare innanzitutto con la dilatata consapevolezza del nostro posto in un tempo e in un luogo. Ma forse è proprio questo che non si vuole. Perché la Storia è innanzitutto un richiamo metafisico, che attiene ad un mistero. “La storicità dell’uomo – scriveva Karl Jaspers – è, senz’altro, storicità molteplice. Ma il molteplice è soggetto all’esigenza dell’Uno”.

Ciò che forse fa paura è proprio che la Storia esca – sono ancora parole di Jaspers – “dal campo del mero sapere per ridiventare problema di vita e di coscienza dell’esserci; da materia di cultura estetica si trasformi in serietà dell’ascoltare e del rispondere”.

Ecco allora che la Storia – terreno solido in cui sperimentare, anche con virile audacia, le visioni del mondo – si propone come “habitat nutriente nel quale ogni debolezza è garantita come valore” (Roland Barthes lettore di Michelet).

Come si può ben vedere, una Storia così, ha già perso la sua battaglia con i funzionari del Miur e con ministri che si accontentano di passare alla storia grazie al nome che hanno appiccicato ad una riforma, dalla Gelmini in poi. Si andrà avanti a suon di leggi e leggine, commissioni, audizioni. I successori del buon Giovanni Gentile, l’unico ministro della Pubblica istruzione che abbia avuto una visione non solo dei programmi, ma dell’uomo dentro una società complessa, proveranno e riproveranno, si dibatteranno e si divideranno tra conoscenze e competenze, si allineeranno alle direttive europee, elaboreranno sistemi di valutazione, di test, di percorsi, si preoccuperanno di trovare formule mirabolanti per innovare la didattica. Verranno pubblicati libri astrusi in cui la Storia danzerà con i suoi scarponi i minuetti di una cultura disorientata. Le si troveranno nomi nuovi per camuffarla a bella posta agli occhi delle giovani generazioni cui i cosiddetti adulti sembrano prostrarsi con il loro complesso d’inferiorità fatto di rughe e di discorsi spezzati.

Nel frattempo la Storia farà quel che deve e ci ritroverà cadaveri, convinti di esser nati, vissuti e morti nell’anno zero dell’umanità. Ci salverà quella ragazza che ad un mio esame commentò la strage del Bataclan con il Maometto e Carlomagno di Henri Pirenne.