La scuola dei figli degli idraulici e quella dei figli dei notai. Pari sono, ci mancherebbe, ma c’è un ma e l’esame conclusivo del ciclo di studi lo mette ancora una volta in evidenza. Se c’è nella società italiana un ambito in cui, più che altrove, essa naviga a vista è appunto la scuola. Ne è un esempio il fatto che a quattro mesi (in realtà anche meno, dal momento che va tenuto conto del necessario periodo di preparazione di almeno un mese) dall’avvio dell’esame di maturità, il Parlamento non ha ancora deciso quali ne saranno le modalità.
Lontanissimi i tempi (sembra preistoria) in cui la prova si ripeteva anno dopo anno uguale a se stessa, lontani anche quelli delle mini-medie-maxi riforme che ogni ministro, più o meno dagli anni Ottanta, ha ritenuto opportuno introdurre comunicandolo però con congruo anticipo, la pandemia ha di fatto stravolto qualsiasi ragionevole prassi in tal senso.
Nell’ultimo biennio era forse impossibile comportarsi diversamente, ma ora che il Covid si ripresenta nelle nostre aule per il terzo anno consecutivo è lecito chiedersi se non si poteva arrivare al massimo a fine 2021 per prendere una decisione definitiva. La quale, per altro, pareva fosse stata presa: la settimana scorsa il ministro Patrizio Bianchi aveva comunicato che la Maturità 2022 si sarebbe svolta su tre prove: lo scritto di italiano, lo scritto di materia inerente il corso di studi deciso dalle singole commissioni, la prova orale su materiale scelto dalla commissione. Ma la decisione ministeriale, anziché chiarire la faccenda, l’ha complicata suo malgrado.
Ha iniziato il Coordinamento degli Studenti gridando allo scandalo, scendendo in piazza e bollando il ministero con un slogan per la verità efficace come “Gli immaturi siete voi” che ha inteso mettere il dito nella piaga di un esame considerato troppo difficile a fronte delle difficoltà didattiche introdotte dalla pandemia. Giornali, radio, tv si sono buttati a pesce perché parlare e scrivere bene della gioventù è un mantra, un po’ come è obbligatorio scrivere e parlare bene della canzone napoletana. Grandi spazi, ampi servizi, finché una delegazione è stata ricevuta al ministero.
Nel frattempo, il Consiglio superiore della pubblica istruzione –del quale fa parte lo stesso ministro in qualità di presidente – ha di fatto sconfessato il ritorno all’esame “tradizionale”, puntando il dito in particolare contro la seconda prova: troppi studenti in Dad, troppo complicato proporla.
Infine, la partecipazione di Patrizio Bianchi alla trasmissione 24 Mattino di Radio 24: “Ho detto agli studenti di non avere paura perché le commissioni, come loro stessi hanno richiesto, saranno interne. Ci sarà un presidente esterno per garantire l’uniformità su base nazionale, ma ci saranno commissioni interne. L’ipotesi di dare più peso al percorso del triennio che all’esame in sé? Ci sto ragionando su. Gli studenti hanno fatto questa richiesta in maniera molto ponderata e in maniera altrettanto ponderata ci sto ragionando”.
Poteva essere il preludio per una marcia indietro e in parte così è stato ma, dobbiamo dire, con onore. Ieri la nuova ordinanza ministeriale ha stabilito che le prove rimangono, ma con alcune modifiche che pare (sottolineiamo pare, perché per oggi sembra confermata l’annunciata discesa in piazza degli studenti) abbiano tranquillizzato la rappresentanza studentesca: fatto 100 il voto finale massimo, il percorso di studi sale da 40 a 50 punti e la prova d’esame scende da 60 a 50 con 20 punti per l’orale e 15 punti ciascuno per i due scritti; il primo, l’elaborato di italiano, rimane intatto e cioè deciso dal ministero, il secondo diventa di competenza dell’istituto e non delle singole commissioni.
Soprattutto quest’ultima decisione ci sembra ragionevole perché evita una disparità di trattamento da commissione a commissione. Temevamo un cattivo compromesso, invece il ministro Bianchi ha tenuto il punto. Una vittoria degli studenti, quindi? No, purché quanto accaduto nelle ultime ore si limiti a dimostrare la possibilità di una collaborazione tra livelli diversi e non avvi una stagione di rivendicazioni tout court.
Naturalmente, di tutto quando accaduto nei giorni precedenti la stampa ha dato ampia informazione, mentre si è perduto nel nulla l’appello di fine anno con cui alcuni intellettuali hanno sollecitato il ministro a non cedere alle pressioni per un esame “facile”: “Temiamo che il virus possa diventare il pretesto per trasformare una scelta emergenziale in una prassi corrente per dismettere con fretta temeraria conquiste e principi che appartengono non meno alla comune civiltà che alla scuola in senso stretto. La verifica della acquisita maturità e delle acquisite conoscenze può avvenire unicamente attraverso un elaborato effettivamente autentico per dimostrare l’ordine mentale oltre che la perizia lessicale e le competenze nel merito”.
Fuori dai rispettivi schieramenti, ciascuno dei quali presenta in verità punti deboli e punti forti, non ci resta che piangere su una scuola in cui non si comprende più “chi gestisce cosa”, in cui prevale chi grida più forte, in cui i docenti sono trattati come l’ultima ruota del carro (anche per demerito loro: avete sentito una qualche organizzazione sindacale dargli voce?).
Lo spauracchio è che la Maturità finisca piano piano col venire ridimensionata del tutto, quasi fosse un accidente sulla strada del diploma. Del resto, i risultati “bulgari”, come si diceva ai tempi della dittatura comunista, in fatto di promozioni saranno difficili da mutare: nel 2021 percentuale di maturati ha sfondato il 99 per cento, il 13,5 dei quali con voto 100. Siamo sicuri che vada proprio bene così? “Abbassare l’asticella penalizza il figlio dell’idraulico, non del notaio” scrivono Paola Mastrocola e Luca Ricolfi nel loro recente Il danno scolastico uscito per La nave di Teseo. Il punto vero è proprio questo: promuovere tutti per non promuovere sul serio, nella vita, nessuno. A parte figli di notai e co.
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