Ho letto con interesse il partecipato dibattito nato ed evolutosi su queste colonne intorno all’esame di Stato. Ho trovato punti di vista molto condivisibili, scenari realistici dipinti con precisione, critiche puntute, difese della Costituzione e del rito di passaggio, ironie sui mazzi di fiori portati dei genitori, tentativi di proposte per un cambiamento eccetera eccetera eccetera.



A me sembra che manchi la risposta ad una questione di fondo, una questione che forse anni addietro si poneva di meno, ma che oggi è divenuta essenziale: a che serve quest’esame? Il voto che assegna, evidentemente, non serve a niente, se non a discutere per un mesetto (se va bene) con gli amici e i parenti in vacanza sul brillante risultato conseguito o sulle assurde ingiustizie subite.



Quel voto è il risultato di un esame concepito fin dall’inizio molto male e tirato avanti per decenni ancor peggio, costoso, farraginoso, scioccamente litigioso, antico (c’è ancora il sigillo di cera sul pacco di carta marrone nell’era della smaterializzazione!), anche stupido nella sua ultima prova, il colloquio, che, come ebbi a scrivere qui anni fa, è una vera e propria istigazione al Bignami.

Dunque, a che serve? A conoscere lo studente? No, il suo consiglio di classe lo conosce meglio. A valutarlo? No, il suo consiglio di classe ne ha già valutato il livello. A fornirlo di un documento che lo rappresenti adeguatamente nel mondo del lavoro o nel prosieguo degli studi? No e infatti per gli studenti che intendono continuare valgono infinitamente di più i test di ammissione alle università o alle accademie militari; per quelli che vogliono lavorare conta infinitamente di più un contatto col mondo del lavoro.



Dunque la risposta è molto semplice: se non serve va eliminato. Basta sostituirlo con il voto della media dell’ultimo anno (se proprio si deve formulare un voto), ma ancor più con un certificato che dettagli con la massima accuratezza possibile la figura dello studente, i suoi punti di forza, le esperienze maturate, scolastiche ed extrascolastiche, le sue competenze, la sua dedizione o meno al lavoro, la sua capacità di interagire e collaborare con gli altri, insomma le sue varie skills, compreso il suo “capolavoro”, quello che lui ritiene tale. Non mi dilungo, avete capito.

Questo oggi serve davvero e tra l’altro sarebbe anche uno stimolo a modificare l’impostazione didattica. Perché, l’ho già scritto e lo ripeto, l’esame finale è il traguardo di un percorso sì, ma influenza il percorso stesso. È un fatto che oggi, a partire dal terzo anno, si comincia a pensare all’esame, a mettere da parte punti per arrivare bene al traguardo. Vorremmo, a parole, studenti che abbiano una certa libertà rispetto al voto, che siano in grado di capire che non si studia per la scuola ma per la vita, e però li mettiamo di fronte ad un sistema che gli ricorda ossessivamente che c’è un voto finale da cui dipende il senso del percorso fatto. Tutto il contrario di quel che vorremmo che capissero. Non è così? Ed è proprio da questa impostazione che nascono ansie, paure, risentimenti, medie gonfiate, delusioni e ricorsi, insomma tutto il peggio del peggio che questo esame porta con sé. E quel voto, che non conta niente, ha la maligna capacità di assorbire e addirittura oscurare tutto il cammino fatto, il suo senso, la sua ricchezza.

Ci piace, cari colleghi? Ci piace essere ridotti a preparatori di un esame, ad organizzatori di simulazioni, a formatori di come si fa a ricondurre a un predeterminato “snodo” il documento, più o meno noto, propinato da una commissione?

Attenzione, amici: se ci piace questo vi do la triste notizia che presto saremo sostituiti. Se non cambiamo adesso la modalità, sarà essa a cambiare noi, rendendoci superflui. Perché la cosa migliore da fare per rendere oggettivo e serio questo fantomatico rito di passaggio è metterlo in mano all’intelligenza artificiale.

Basta un po’ d’immaginazione. Prova scritta: gruppi di dieci studenti davanti ai computer in una stanza schermata (accesso al web impossibile), con telecamere che controllano e un presidente esterno di commissione a garanzia. Colloquio orale: studente in una stanza con un ologramma davanti (una bella, giovane e simpatica docente, o un docente belloccio e comprensivo – a scelta del candidato) che fa domande, interloquisce, registra e valuta sulla base di una scheda di valutazione preordinata. Venti studenti al giorno (la macchina non si stanca), risultati in tempo reale e immediatamente processabili, discussioni, risentimenti, ricorsi eliminati, risparmio enorme per le casse dello Stato (il che non guasta), via le commissioni, i commissari (parola anche antiquata, oscuramente novecentesca), via la carta marrone e il timbro sulla cera. Trionfo della smaterializzazione. In una settimana appena tutto fatto, giochi chiusi, Costituzione onorata. Il rito magari diventa meno affascinante, ma le mamme e i papà con i fiori e la bottiglia di spumante ce li possiamo concedere ugualmente. E anche la canzone di Venditti cantata in compagnia alla viglia.

Resterebbe un piccolo problema: la scuola, così come la conosciamo, così come in fondo ancora la vogliamo, sarebbe semplicemente spazzata via. La scuola fatta di emozioni, dialogo, domande e tentativi di risposte, incontro fisico e appassionante tra esseri umani, vivi anche sui libri. Il traguardo modifica il percorso.

Insomma, se lo dobbiamo fare davvero oggettivo e serio, “facciamolo strano”: affidiamoci agli algoritmi, all’intelligenza artificiale (e agli ologrammi) e facciamoci male da soli. Oppure mettiamolo decisamente in soffitta e cominciamo a ragionare in modo diverso, senza sentirci orfani di qualcosa che, credetemi, non rimpiangeremo.

 

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