A prima vista sembrerebbe un caso di harcélement adulto, ma forse è molto di più. L’onda di fango e di insulti che hanno travolto la youtuber francese MavaChou e suo marito Adrien va oltre il linciaggio cui i social media ci hanno mestamente abituati, non fosse altro perché tale odio – stavolta – è finito in tragedia.
Ma proviamo ad andare con ordine: da alcuni anni, oltralpe, uno dei fenomeni culturali più combattuti è l’harcélement, una sorta di persecuzione ossessiva e senza motivo di una persona – spesso uno studente o una studentessa – nel deliberato tentativo di spingere quella persona ad atti estremi come l’autolesionismo o il suicidio. È l’espressione, senza infingimenti, della cattiveria e del male, idolatrato fino al suo massimo eccesso, la morte.
Questa dinamica agghiacciante sembra poter descrivere compiutamente quanto occorso a MavaChou e a suo marito Adrien, da molti anni avvezzi a raccontare su YouTube la propria vita matrimoniale e la nascita dei loro figli – compresa l’ultima dolorosissima gravidanza di lei conclusasi con un aborto spontaneo. La storia comincia a farsi davvero difficile nel momento in cui si capisce che fra i due non è tutto “rose e fiori”, che la coppia sta esplodendo e che una separazione è in agguato. Adrien e MavaChou decidono di non fingere e ammettono l’imminente fine della loro storia.
Da quel momento il mare di fango comincia ad inondare i loro profili social. La coppia, ingenuamente, pensa di poter continuare a cavalcare la marea e porta in video il conflitto interno, con accuse false di violenze, bugie, malversazioni. Il fango continua a salire, Adrien accusa l’ex moglie di maltrattamenti verso i loro figli, YouTube si scatena. È il 7 dicembre quando MavaChou va in tv e racconta la propria disperazione, il suo sentirsi bollata e braccata da tutta quell’onda di insulti e di falsità che ormai domina la sua vita sulla rete. Il grido della donna, purtroppo, non viene intercettato e la donna il 22 dicembre scorso, a 32 anni, si suicida. La magistratura ha aperto un fascicolo per “molestie morali che hanno spinto al suicidio” e adesso parte dell’opinione pubblica dibatte, s’interroga su quanto è accaduto.
Sono diverse le considerazioni che si potrebbero fare a margine di questa storia da incubo, ma forse una è più significativa per tutti di altre: MavaChou e suo marito, come gli adolescenti vittime dell’incontrollato mobbing sui social, non riuscivano più a riconquistarsi, a riguadagnarsi, la realtà. Il vero problema del nostro tempo è questa distorsione dell’esperienza che la rete e il metaverso introducono nelle nostre vite per cui, in fondo, tutto si svolge nella nostra mente, nel nostro pensiero, e come quando si è in acqua al mare e non si riesce più a tornare a riva, diventa quasi impossibile riguadagnare la realtà, il contatto concreto con le cose e le persone.
Proviamo ad immaginare se, per un guasto qualunque, dovessero mancare i social per una settimana: ci troveremmo di fronte a decine di persone in crisi, incapaci di avere relazioni reali, incapaci di assegnare un giudizio di valore alle cose che davvero esistono. MavaChou e Adrien hanno dato peso e valore soltanto alla voce della rete, non avendo uno spazio di vita concreta dove rifugiarsi e spegnere tutto il teatro d’avanspettacolo che negli anni avevano sapientemente costruito.
E questa, in fondo, anche per noi è la domanda: se tutto quello che si muove attorno a noi d’un tratto si spegnesse, se tutto il brulichio artificiale dell’esistenza fatta di commenti e contro-commenti smettesse di funzionare, noi avremmo un luogo dove essere noi stessi? Noi avremmo una vita? Noi, al di là di tutto, avremmo una casa dove andare?
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