Maxiprocesso mafia: la grande opera di Falcone e Borsellino

Il Maxiprocesso mafia fu una delle pagine più importanti della storia contemporanea italiana. I due giudici chiave delle indagini, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, sacrificarono la loro stessa vita per condurre l’indagine che avrebbe colpito il cuore di Cosa Nostra, infliggendo uno dei colpi più duri che la mafia italiana abbia subito. Tutto iniziò nel 1984, quando le autorità brasiliane estradarono in Italia il futuro pentito Tommaso Buscetta. Uomo da sempre vicino ai Corleone, decise di pentirsi dopo che Riina fece uccidere tutta la sua famiglia per vendetta.



Fu Buscetta, anche noto come don Masino, a rivelare a Falcone tutta la struttura organizzativa di Cosa Nostra. Per Buscetta quello era il modo migliore per vendicarsi del boss che aveva appena sterminato 11 sui familiari, e da quelle dichiarazioni prese proprio il via il Maxiprocesso passato alla storia. Furono emessi 366 ordini di custodia cautelare, mentre grazie alle successive dichiarazioni di Salvatore Contorno (detto Totuccio) ne furono emessi altri 127. Questo prese il nome di blitz di San Michele e fu una giornata chiave per l’avvio di processo. Infine, l’ultimo punto chiave che permise l’avvio del processo fu l’arresto di Michele Greco, uomo chiave nelle cosche mafiose.



Maxiprocesso: le reazioni di Cosa Nostra

Ovviamente, la strada che portò al Maxiprocesso mafia non fu così semplice. Tra ottobre e dicembre 1984 la risposta di Cosa Nostra arrivò in tutta la sua potenza, con pesanti ripercussioni su alcuni pentiti (tra i quali Salvatore Anselmo, ucciso mentre era ai domiciliari, suo fratello Mario Coniglio e Leonardo Vitale, uno dei primissimi mafiosi a collaborare con la giustizia negli anni ‘70). Venne anche organizzata la strage del Rapido 904 che portò alla morte di 17 persone, e causò ferite ad altre 267 persone.

In seguito agli omicidi del commissario Beppe Montana e del vicequestore Ninni Cassarà, i giudici Falcone e Borsellino furono trasferiti in un luogo sicuro, nel quale avrebbero da lì a poco prodotto l’ordinanza che rinviava a giudizio 476 indagati, sulla base delle indagini svolte dal pool mafia. L’8 novembre 1985 fu una data di svolta, quando il giudice Caponnetto emanò la sentenza che diede il via al Maxiprocesso, basata sull’istruttoria di Falcone e Borsellino. Queste consisteva in 8608 pagine, divise in 40 volumi che indagavano la posizione di 707 indagati, che scesero a 475 dopo il proscioglimento di 231 indagati.



L’ordinanza di Falcone e Borsellino: oltre 8000 pagine di accuse

L’ordinanza di Falcone e Borsellino non lasciò nulla al caso, con le sue oltre 8000 pagine di indagini redatte con dovizia di particolari. Il primo volume dei 4 consisteva solamente in un lungo elenco di nomi, mentre i successivi tre erano tutti i capi d’imputazione. I volumi dal quinto al ventesimo illustravano i dettagli e gli argomenti dell’istruttoria (come le strutture di Cosa Nostra, e le altre dichiarazioni dei pentiti sugli illeciti commessi dalla cosca mafiosa), infine gli ultimi dieci volumi indagavano la posizione di ogni singolo imputato, con tanto di prove collegate ad ognuno.

Fu chiaro che il processo non poteva essere ospitato in nessun tribunale pubblico, sia per l’enorme numero degli imputati, sia per l’ancora più grande rischio di ripercussioni, tanto per i pentiti, quanto per gli accusati, che per giudici, avvocati difensori e presenti (parlando di numeri, c’erano oltre 900 testimoni, 200 avvocati difensori, 600 giornalisti e 3000 agenti di polizia). Si decise quindi di costruire un’aula di tribunale nei pressi del Carcere dell’Ucciardone, a Palermo, che fu pronta in appena 6 mesi e che passò poi alla storia con il nome di “aula bunker”. L’aula era progettata per resistere a qualsiasi tipo di attacco esterno e fu dotata di un avanguardistico (almeno in quel periodo) sistema di archiviazione computerizzata degli atti.

L’avvio del Maxiprocesso

La primissima udienza del Maxiprocesso mafia presieduto, tra gli altri, anche da Falcone e Borsellino, si tenne il 10 febbraio 1986 proprio nell’aula bunker all’Ucciardone. Vi furono anche alcuni tentativi di rimandare l’udienza, con imputati che fingevano attacchi epilettici o compivano azioni autolesioniste, ma anche con il tentativo di un avvocato di chiedere una ricusazione (rigettata dalla Corte d’appello) e con la richiesta di un altro avvocato di rileggere integralmente tutti gli atti processuali (se fosse stata accettata, ci sarebbero voluti circa 2 anni per completarla).

L’udienza si tenne comunque, anche perché occorreva che almeno il primo grado di giudizio venisse svolto prima dell’8 novembre 1987, quando la custodia cautelare degli imputati sarebbe scaduta. Da quell’udienza, ne seguirono altre 349, con 1314 interrogatori e 635 arringhe difensive, concludendosi l’11 novembre 1987. Seguì quella che ad oggi è ancora considerata la più lunga camera di consiglio della storia giudiziaria italiana, con una durata di 35 giorni che furono trascorsi dai giurati in completo isolamento, lavorando esclusivamente al Maxiprocesso. L’esito arrivò il 16 dicembre, con la condanna di 346 imputati (19 ergastoli e pene detentive per 2665 anni di reclusione tutali) e il proscioglimento di 114 altri imputati (dei quali Antonino Ciulla non fece neppure in tempo a raggiungere la sua famiglia per festeggiare prima di essere freddato con sette colpi di pistola).

Il Maxiprocesso in appello

L’esito del Maxiprocesso non piacque ai 346 condannati che fecero ricorso alla corte d’appello. Il 22 febbraio 1989 prese il via ufficialmente il processo d’appello che si sarebbe concluso il 12 novembre 1990 con il ritiro nella camera di consiglio. La sentenza venne pronunciata il 10 dicembre, con la riduzione degli ergastoli da 19 a 12 e del totale delle pene detentive da 2665 anni a 1576, oltre a portare ad altre 86 assoluzioni. L’ultimo grado di giudizio (la corte di Cassazione) si espresse il 30 gennaio 1992, storica data della fine del Maxiprocesso, confermando la totalità delle pene precedentemente imputate, oltre ad annullare parte delle assoluzioni decise in appello.

Falcone e Borsellino: gli uomini chiave della lotta alla mafia

L’esito del Maxiprocesso fu il più duro colpo inflitto dallo stato all’associazione mafiosa Cosa Nostra, che non tardò a rispondere con violenza e cruda determinazione. Tra il 1992 e il 1993 gli attentati furono parecchi, e portarono alla morte dei due giudici chiave del Maxiprocesso, Falcone e Borsellino. Già nel 1991 si temeva per la vita di Borsellino, pensando ad un possibile omicidio tramite fucile di precisione, o con un’autobomba.

Le preoccupazioni si fecero ancora maggiori il 23 maggio 1992, quando 1000 kg di tritolo esplosero sull’autostrada A29, in direzione Palermo, all’altezza di Capaci. Nell’esplosione perse la vita il giudice Giovanni Falcone, assieme a sua moglie Francesca Morvillo e a tra agenti di scorta, Antonino Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. Iniziarono i 57 giorni (forse) più complessi della vita di Borsellino. Colpito duramente dalla morte del collega con il quale aveva condiviso buona parte degli ultimi anni di vita, era consapevole che la prossima vittima sarebbe stato lui. Era conscio del pericolo che correva, ma questo non lo fermò da continuare il suo lavoro e le sue indagini.

In merito al collega, Borsellino nel suo ultimo discorso pubblico disse che era un uomo che “lavorava con perfetta coscienza che la forza del male, la mafia, lo avrebbe un giorno ucciso”, ma che a muoverlo nonostante i rischi fosse “l’amore, per questa città”. “Per lui la lotta alla mafia non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale”, disse Borsellino. Il 19 luglio 1992, dopo una visita a casa di sua madre e sua sorella, un’autobomba esplose nel parcheggio della casa in via D’Amelio, uccidendo sul colpo Paolo Borsellino e cinque (Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina) dei sei agenti della sua scorta.