Come dimostra il caso Zangrillo, gran parte delle informazioni, a cui giornalmente siamo esposti, riguardano violenza, criminalità, omicidi, problemi economici, incidenti, conflitti, catastrofi naturali. Raramente, infatti, capita di leggere titoli di notizie positive o di ascoltare qualcosa che induca ottimismo. Spesso, i giornalisti sono stati accusati di cinismo e di creare eccessivo allarmismo, ma la verità è che sanno semplicemente che le notizie negative vendono di più. Si crea, quindi, un circolo vizioso in cui i media offrono al popolo ciò che “chiede” e il popolo “subisce” ciò che i media offrono.



Purtroppo, però, le informazioni negative offrono uno specchio deformato della realtà. Le notizie di violenze, guerre e cataclismi, che riempiono le pagine dei giornali e altri mezzi di informazione, senza risparmiarci i particolari più macabri ed efferati, portano alla convinzione che il mondo sia un luogo infido e pericoloso, causando nelle persone un aumento del pessimismo e dell’insicurezza. Anche i canali social sono luoghi in cui le cattive notizie proliferano, condivise di profilo in profilo, e contribuiscono a generare un clima di apprensione, paura e ansia.



Diversi studiosi hanno cercato di spiegare questo fenomeno. Uno studio condotto dall’università di McGill del 2016, ha rilevato che i soggetti esaminati erano effettivamente maggiormente attratti dalle notizie negative, ma allo stesso tempo asserivano di voler leggere un numero maggiore di notizie positive. Un paradosso? I ricercatori affermano che non lo è.

Secondo uno studio, pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences, la ragione va ricercata, a livello evoluzionistico, nel comportamento istintuale degli individui volto a preservare la propria vita e quella della propria specie. In sintesi, le notizie negative attirerebbero maggiormente l’attenzione, perché contengono informazioni istintivamente considerate utili e fondamentali per la sopravvivenza. Spesso comunicate con toni accesi e urgenti, servono a far scattare nel cervello di chi ascolta un allarme e a scatenare una risposta emotiva di paura, che serve a predisporre alla lotta o alla fuga. Paura che tende a perdurare anche una volta passato il pericolo, per timore che la minaccia possa ripresentarsi.



Un’altra teoria per spiegare la dipendenza di massa dalle cattive notizie attribuisce alla sovrabbondanza di negatività, cui veniamo esposti senza scelta fin da piccoli, che porterebbe a una sorta di assuefazione, per cui tendiamo a ricercare ciò a cui siamo abituati.

Secondo Micheal Shermer, editorialista di Scientific American e autore di saggi, come The Believing Brain, che aiutano a comprendere i meccanismi mentali che ingannano il nostro cervello, questo comportamento deriva dall’avversione alla perdita che rafforza la resistenza ad affrontare un mutamento, scegliendo qualunque cosa appaia “familiare”. Questo può portare alcune persone a reagire persino con rabbia al tentativo di convincerle a cambiare la visione del mondo che hanno sempre percepito come “realtà”. Chi è convinto, ad esempio, che la criminalità imperversi in Italia, a causa delle notizie di omicidi riportate quotidianamente dai media, reagirà con ostilità e incredulità a chi cerca di dimostrare, anche con dati inconfutabili, che è drasticamente diminuita negli ultimi anni e che il nostro Paese è uno dei più sicuri al mondo.

Un ulteriore cortocircuito si crea quando le persone tendono a ricercare e interagire solo con chi condivide la loro visione, evitando il confronto con opinioni diverse. In psicologia, questa reazione è attribuita al concetto di dissonanza cognitiva. Quando un’emozione, come la paura, ha condizionato per lungo tempo i suoi comportamenti, un individuo tenderà a rifiutare di considerare obiettivamente un cambiamento della situazione e continuerà a sostenere le stesse convinzioni, cercando di ignorare informazioni che potrebbero metterle in dubbio.

Viviamo nell’era della post-verità. Molti siti di informazione online, anche autorevoli, consci che il 60% degli utenti dei social media legge e commenta solo i titoli senza leggere l’articolo, fanno largo uso di temi e tecniche comunicative che colpiscono le emozioni degli interlocutori, innanzitutto paura, rabbia e odio, evocando scenari cupi, minacciosi e senza speranza. L’intento è quello di attivare il fenomeno del clickbaiting, ovvero catturare il click del lettore con titoli strillati e inventati, per guadagnare in introiti pubblicitari.

Oltre a denunciare i pericoli della rete e dei social network, responsabili di diffondere fake news, occorre prendere in considerazione anche la crisi della stampa ufficiale, spesso colpevole di una narrazione distorta dei fatti.

Giacomo Russo Spena in un articolo uscito su Repubblica sottolinea che “è doveroso rilevare come il giornalismo spesso, purtroppo, partorisca più fake news della Rete; come i governi dicano più falsità del web. Pensiamo alle menzogne, poi confessate anni dopo da Tony Blair, per giustificare la guerra in Iraq contro Saddam Hussein. Il giornalismo mainstream è, infatti, sempre più distante dall’essere il cane da guardia del potere ed è appiattito sul pensiero unico dominante. I media ufficiali sono diventati parte integrante dell’establishment, perdendo il sentore del Paese reale”.

Affidarsi alle fonti istituzionali, definite autorevoli, e ai media mainstream senza porsi dubbi o domande è certamente la scelta più facile, ma non è detto che sia la più salutare per la propria psiche che registra a livello inconscio incongruenze e contraddizioni, generando conflitto interno e senso di malessere.

Il primo passo per recuperare una propria autonomia di pensiero è prendere coscienza che la percezione del mondo che ci viene trasmessa attraverso i media è parziale e spesso pregiudizievole (biased), perché basata su notizie che giornali e programmi televisivi scelgono, diffondono, interpretano e confezionano, prima di tutto per vendere più copie, perché quello è il loro mestiere, ma anche per condizionare scelte e opinioni.

Occorre leggere le notizie senza fidarsi ciecamente di quelle definite “ufficiali”, ma confrontando diverse informazioni e opinioni, consultando fonti differenti, verificandone anche l’affidabilità e l’autorevolezza e cercando di non farsi intrappolare dai pregiudizi e dalla faziosità.

(2 – fine)

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