I grandi cambiamenti indotti dal progresso tecnologico stanno provocando vere e proprie rivoluzioni nelle abitudini di consumo. Chi poteva mai immaginare che si sarebbero venduti meno orologi da quando l’ora è sempre visibile sul nostro cellulare? E che la vendita delle fotocamere digitali sarebbe crollata dell’80% da dieci anni a questa parte?
Oggi gli smartphone di prezzo medio dispongono di buone lenti e di una buona sensibilità, mentre quelli di prezzo superiore hanno addirittura tre obiettivi e sensori di assai elevata capacità. Tutto ruota intorno alla grande rivoluzione del web e dell’interattività on line, che trova nello smartphone il massimo delle sue applicazioni.
Intere filiere commerciali e distributive sono andate in crisi causa della nascita di nuovi monopoli capaci di sfruttare le nuove opportunità, come Amazon. Poi ci sono settori in cui gli effetti dell’innovazione si sono aggiunti alle mutate abitudini dei consumatori.
È il caso dell’editoria, in particolare quella dei giornali. Prendendo a misura sempre gli ultimi dieci anni, “le tirature dei quotidiani si sono praticamente dimezzate – unico in controtendenza Avvenire, probabilmente grazie a scelte editoriali più originali – la pubblicità è calata e tutto il sistema è entrato in crisi, prima per la durissima concorrenza della tv generalista, poi della pay-tv e infine dei social network. Gli editori non hanno saputo cogliere le opportunità offerte da Internet e hanno continuato a fornire per molto tempo gratis l’informazione on line, convinti che servisse a fare da traino alle copie cartacee. Quando poi si sono accorti che il pubblico stava trasmigrando sul web, hanno cominciato a richiedere un pagamento, finora senza troppo successo. Il motivo lo ha ben spiegato in un seminario sui magazine on line il direttore di una grande catena norvegese di supermercati di cui non ricordo il nome: ‘È come se noi avessimo sempre dato ai clienti la birra gratis, e improvvisamente avessimo chiesto di pagarla…'” (La sindrome del criceto, Edizioni La Vela 2020).
C’è poi un non indifferente problema di contenuti: un’intera classe giornalistica composta anche da editorialisti di gran nome ha continuato e continua a rivolgersi a un pubblico che si va drammaticamente riducendo, vuoi per motivi anagrafici, vuoi perché gli articoli sono troppo lunghi e verbosi per essere graditi (e forse compresi) alle classi più giovani, che da tempo non leggono più i giornali. Ignorando inoltre che l’Italia detiene il primato negativo, in Europa, dell’analfabetismo di ritorno, come rilevato dalla ricerca internazionale del Piacc (Programme for the International Assessment of Adult Competencies), che ha interessato un campione di 166.000 adulti tra i 16 e i 65 anni. Secondo la ricerca, sette italiani su dieci non capiscono bene l’italiano e il 70% della popolazione risulta al di sotto del livello minimo di comprensione nella lettura di un testo di media difficoltà.
Soprattutto per costoro ci vorrebbero maestri come Biagi e Montanelli, capaci di contenere i loro chiari e succosi editoriali in sessanta righe: alla fine si scopre quanto fossero molto più moderni dei loro colleghi di oggi.
Ulteriore elemento di preoccupazione lo fornisce l’analisi dei ricavi pubblicitari: l’Agcom riferisce che ai quotidiani va in Italia il 7% della torta, a radio e stampa periodica il 6%, il 39% va alla tv e il 41% all’on-line. In quest’ultimo comparto, l’1% dei soggetti più grandi si accaparra il 68% di tutti gli investimenti, mentre il restante 32% si disperde tra una miriade di piccoli operatori.
Dati Upa/Nielsen sugli investimenti pubblicitari. Legenda: colore azzurro TV, colore verde Internet; colore giallo Radio; Colore viola Stampa; Colore rosso Quotidiani.
Lo scenario che abbiamo di fronte è ben poco rassicurante: l’informazione e i consumi culturali sono sempre più nelle mani di grandi monopolisti, mentre i quotidiani, che un tempo costituivano una collettiva agenzia di senso, sono destinati a una progressiva irrilevanza.
Qualche inversione di tendenza la segnalano di là dall’Oceano gruppi editoriali di grande tradizione. Per la prima volta in quest’anno i ricavi dei prodotti digitali del New York Times hanno superato quelli dei prodotti cartacei. Questo avviene perché fin dal 2011 il Gruppo aveva cominciato ad abituare i lettori a pagare gli articoli (i primi cinque gratis, poi una sottoscrizione mensile, e quindi pagamenti per gli approfondimenti). Dato che il value for money era ed è sempre elevato, alla lunga i risultati stanno arrivando. Se si vogliono salvare, gli editori nostrani potrebbero imparare qualcosa da questa esperienza.