È in corso di definizione in queste ore il protocollo operativo che dovrebbe servire da faro per i medici di base nella gestione della pandemia da Coronavirus. Uno strumento essenziale per limitare l’affaticamento degli ospedali e stabilire delle linee guida a livello nazionale, finora mancanti. Il suo annuncio è stato accolto dalle proteste dei medici di base, i rappresentanti di categoria sembrano non essere stati interpellati né ascoltati nella definizione del protocollo. Abbiamo cercato di approfondire gli elementi della questione con Alberto Oliveti, presidente di Enpam (l’ente di previdenza di medici e odontoiatri) e medico di base in pensione.
Dott. Oliveti, a che punto siamo col protocollo per i medici di base?
Il protocollo del Comitato tecnico-scientifico è ancora in bozza e non mi risulta che sia stato reso operativo, c’è stata una contestazione da parte delle associazioni di categoria come la Fimmg (la federazione italiana dei medici di famiglia, ndr) che non sono state coinvolte nella sua definizione, il che è abbastanza strano: fare un protocollo per una categoria senza coinvolgere i rappresentanti di quella categoria.
Come mai la definizione richiede tempo?
È chiaro che a questo punto un protocollo per la gestione domiciliare del paziente Covid non è di facile definizione, perché non esistono sulla base della conoscenza della malattia protocolli completamente affidabili da poter adoperare. Ci si muove con una certa indeterminazione, sia da un punto di vista dell’approccio sia da un punto di vista di quello che si può fare a domicilio. Esiste al momento un insieme di strumenti per la gestione del paziente a domicilio, ed esistono protocolli terapeutici non ancora abbastanza validati dal punto di vista scientifico.
Un medico di base deve o non deve andare a casa del paziente oggi?
Andando a casa del soggetto malato il medico rischierebbe il contagio e la diffusione del contagio. Un paziente accertato Covid potrà essere visitato solo in presenza di dispositivi di protezione individuale, inoltre un medico non può andare dal paziente da solo, la vestizione e svestizione va fatta in coppia. Purtroppo questi sono proprio i due versanti su cui siamo più carenti in questo momento: la dotazione di adeguati dispositivi di protezione, da un lato, il personale, dall’altro.
Di che risorse dispongono i medici di base, oggi, per orientarsi nel loro operato?
Ci sono delle schede di Triage, ci sono poi delle schede che valutano per i pazienti sospetti l’ipotesi se sottoporli o meno a test diagnostico sulla base di alcuni sintomi ricorrenti, ma mancano i pacchetti necessari perché un paziente possa essere seguito a domicilio, con il saturimetro, il misuratore di pressione (lo sfigmomanometro) e il termometro, tre presidi indispensabili. Mancano anche gli strumenti per effettuare a domicilio l’ecografia toracica, che viene considerata come elemento di definizione dell’impegno respiratorio in presenza di sintomi. I medici di base non si possono mandare così in trincea.
Non ci sono le Usca per questo?
Le Usca sono unità speciali di continuità assistenziale, da quel che so non sono presenti in maniera capillare sul territorio.
Non è chiaro come muoversi.
No, anche perché non abbiamo chiara la stessa malattia e la prospettiva terapeutica, specialmente domiciliare. Si stanno costruendo adesso i protocolli, non ne esistono di consolidati, nemmeno in ospedale. Ad esempio un elemento dibattuto è l’utilizzo del cortisone, che viene certamente sconsigliato a casa, specie nella prima settimana di patologia, perché potrebbe deprimere difese immunitarie che sono in prima linea per ridurre una replicazione del virus. Invece quando compare un impegno respiratorio il cortisone pare in grado di prevenire o almeno ridurre quella tempesta citochimica che è la causa dell’esplosione dell’alveolite alla base dei danni respiratori, e anche circolatori.
Quindi i test dal medico di famiglia al momento sono fuori discussione?
È stato fatto un accordo convenzionale solo sul test rapido, il cosiddetto test antigenico, sempre naso-faringeo, da effettuare negli studi di medicina generale per i soggetti asintomatici che hanno avuto contatti sospetti. Siamo nel versante di coloro che non hanno segnali di affezione, contagio e malattia ma che possono essere stati a contatto con un paziente positivo, sono i sospetti contatti asintomatici.
Sono pazienti che vanno apposta in ambulatorio?
Sono pazienti mandati appositamente dal dipartimento prevenzione o pazienti che si rivelano casualmente nel colloquio col medico, a quel punto il medico può effettuare il test, ovviamente avendo a disposizione i dispositivi di protezione, i presidi di sanificazione e una struttura idonea: una struttura separata, con una doppia via di entrata e uscita, etc. A questi si aggiungono coloro che, essendo stati messi in quarantena per quattordici giorni perché hanno avuto un contatto stretto con un positivo, al decimo giorno possono scegliere di fare il tampone per poter tornare alla propria vita normale.
Ma la persona che è stata a contatto stretto con un positivo non viene automaticamente convocata dalla Asl per sottoporsi al test?
Magari, non tutti lo fanno, in assenza del tampone si viene messi in quarantena per 14 giorni. Se si vuole cercare di accelerare l’uscita dalla quarantena si può fare il test.
I medici di famiglia come hanno recepito questa possibilità?
Non con grande entusiasmo, preferirebbero andare a effettuare i test in strutture adibite all’uopo piuttosto che nei loro studi. Solo pochi hanno un’organizzazione del lavoro che permette la separazione, gli studi medici non sono nati per questo. Quindi si sta cercando di gestire questa possibilità con la predisposizione di spazi appositi.
E quindi il medico dovrebbe sottrarsi alla comunità e alle funzioni ordinarie o aggiungere un ulteriore carico di lavoro a quello preesistente?
I medici di base sono oberati di lavoro, l’impegno è tanto e non passa mai questo messaggio, c’è tutto un carico di lavoro che non è quello ordinario e che spesso deve essere svolto telefonicamente e coi pochi mezzi a disposizione. Tra i soggetti malati, c’è stato più di mezzo milione di soggetti positivi rimasti a casa e non ricoverati, chi vuole che si sia interfacciato con questi?
Voi non siete stati consultati, cosa avreste proposto?
Quando si parla di una questione della quale non si hanno chiare le definizioni scientifiche (e mi pare questo il caso), ci si confronta, si studiano i percorsi fattibili e si ascoltano le esperienze di coloro che hanno avuto l’impatto diretto con la pandemia e sono stati l’interfaccia di persone giustamente spaventate. Penso che questa esperienza meriti di essere valutata per definire i protocolli operativi, sia di tipo diagnostico che assistenziale e terapeutico.
Di cosa avrebbero più bisogno i medici di famiglia in questo momento?
Prima di tutto una tutela dal punto di vista di protezione individuale, abbiamo perso 70 colleghi. Tanti li conoscevo, Roberto Stella fu tra i primi, era il presidente dell’Ordine dei medici di Varese.
I dispositivi di protezione individuale mancavano all’inizio, mancano ancora oggi?
Non sono così facilmente disponibili come si auspica. E poi manca il personale di studio, il personale professionale, e stiamo scontando una programmazione carente. La mia generazione ha avuto tanti medici di famiglia ma poi c’è stato un buco che si sta cercando di colmare. È difficile colmare un buco di programmazione in poco tempo.
Come mai?
Per un po’ quella del medico di base è stata considerata una professione minore, non è stata insegnata con la dovuta attenzione all’università, i giovani trovano più soddisfacente e anche più remunerativo seguire un percorso di specializzazione che non il corso di formazione in medicina generale. Non riceviamo un aumento di finanziamento da un tempo indicibile, è chiaro che poi si crea un buco.
Eppure sarebbe una figura fondamentale per orientare il paziente.
Certo. Mentre il medico ospedaliero e lo specialista affrontano persone già orientate verso un problema più o meno specifico, il medico di famiglia è il medico dei problemi. Deve avere la capacità di cogliere le problematiche, gestirle, riprendere in carico i pazienti, specie anziani, che escono dalle aree ospedaliere o dall’area diagnostica più complessa per delle riacutizzazioni; deve gestirne i percorsi diagnostico-terapeutici e assistenziali.
Da dove arriva questo pregiudizio allora?
Non è stata curata la componente vocazionale, al giovane veniva fatta vedere sempre come una professione di ripiego, di conseguenza adesso mancano i medici di base. La pandemia improvvisa ha slatentizzato questa mancanza, però, ripeto, mezzo milione di pazienti rimasti a casa sono stati e sono tuttora seguiti dai loro medici di base. E dei protocolli oggettivamente mancano perché la malattia è troppo fresca.
Fra la prima e la seconda ondata non c’è stato il tempo di definire un protocollo?
Forse si è sperato fideisticamente che fosse passata la tempesta e invece è arrivata la seconda ondata. Qualcosa di più si poteva fare durante l’estate. E invece abbiamo messo la speranza prima del ragionamento.
(Emanuela Giacca)