Il numero chiuso per medicina resta, con la differenza che per stabilire chi potrà diventare medico proseguendo gli studi universitari non bisognerà più affrontare il test attuale, ma occorrerà seguire le lezioni (online) per un semestre e sostenere alcuni esami. Dopo di che, una graduatoria nazionale deciderà chi potrà proseguire gli studi universitari. Così ha proposto il Comitato ristretto della Commissione Istruzione del Senato, cambiando un sistema decennale.
Una nuova modalità di accesso all’università che però, spiega Giancarlo Cesana, già professore ordinario di igiene e sanità pubblica dell’Università Bicocca, rischia di creare confusione. Meglio sarebbe se ogni università stabilisse i suoi criteri di accesso agli studi, con un suo numero programmato, lasciando che alla professione si giunga superando un esame di Stato. In Italia, in realtà, il problema non è tanto quello del numero di medici, ma della necessità di indirizzare qualche dottore in più verso le specializzazioni più impegnative, oggi snobbate.
Il numero programmato rimane, ma invece che accedere a medicina attraverso un test, lo si farà dopo un semestre in cui si sosterranno quattro esami, banco di prova per stilare una graduatoria nazionale che stabilirà chi potrà continuare gli studi. Una soluzione condivisibile?
Secondo me sarà un pasticcio. Creerà più confusione e più lamentele. Adesso per il test di medicina si iscrivono in 60mila, con questo sistema diventeranno 80mila. Dove li mettono non si sa. Faranno delle lezioni a distanza e poi dovranno scremare i candidati. Ci sono già molti ricorsi con il sistema attuale, chissà con la nuova procedura cosa succederà. Mi sembra una imitazione astratta di quello che si fa in Francia, dove sono più organizzati. Non lo dico solo io ma anche l’Ordine dei medici e molti colleghi dell’università.
Ma il problema rimane solo la modalità di ammissione alla facoltà?
Ho delle ulteriori perplessità, più generali, sulle modalità di formulazione del numero chiuso. Da noi è lo Stato che lo fissa: secondo me è una violazione della libertà individuale. Uno deve potersi iscrivere a una facoltà anche se il numero degli iscritti supera quello che il mercato del lavoro italiano può accettare. Si può anche andare all’estero a lavorare. Questo sistema da piano quinquennale staliniano mi ha sempre lasciato perplesso. Dovrebbero essere le singole facoltà a dire quanti studenti possono prendere, in base alle strutture e con i criteri che vogliono. Poi dovrebbe esserci un esame di Stato che verifichi la formazione data dalle singole facoltà. Ciliegina sulla torta dovrebbe essere l’eliminazione del valore legale del titolo di studio.
Il sistema dei test ha influito in qualche modo sulle motivazioni dei giovani che si avvicinano a medicina?
Il test di ammissione a medicina di fatto una certa scrematura la produce: i ragazzi che arrivano si danno da fare e la facoltà di medicina è tra quelle in cui ci sono meno ritiri. Sono studenti intelligenti che hanno voglia di fare. Per quanto riguarda la preparazione, in genere, tutte le facoltà hanno un numero di studenti superiore a quello che possono sopportare. Il numero di iscritti è la base per assegnare i posti di insegnamento: se un docente ha molti studenti da preparare, può chiedere anche un posto da ricercatore o da associato. In genere, si studia molto di più rispetto ai miei tempi, ma io mi sono iscritto nel 1967 quando l’università era occupata e sono uscito quando era ancora occupata. Non è un esempio di formazione.
Qual è il livello della preparazione clinica?
Lascia un po’ a desiderare, perché i mezzi e i docenti sono quelli che sono. La disponibilità degli ospedali per la docenza non è gran che: formare gli studenti rispetto al ciclo di prestazione è una perdita di tempo. Fare medicina è un’attività pratica, il dottore deve essere capace di fare diagnosi, usare gli strumenti e questo richiede tempo. La preparazione viene parzialmente recuperata nelle scuole di specializzazione, che fino a poco tempo fa sono state il vero punto di selezione: non si entra a lavorare in ospedale senza la specializzazione, i posti erano meno dei laureati per anno e questo incideva sulla disponibilità del personale.
Ma in Italia non mancano i medici? Non ce ne vorrebbero di più?
Non abbiamo pochi medici, sono più di 4 per mille abitanti e siamo con la Germania e la Svezia quelli che ne hanno di più. Il problema sono le specializzazioni, perché quelle più pesanti dal punto di vista del lavoro e dei turni tendono a essere evitate. Una delle specializzazioni maggiormente ricercate è dermatologia, perché più facile dal punto di vista delle prestazioni professionali in ambito privato e perché sotto il profilo medico legale comporta meno rischi. Le specializzazioni più necessarie, quelle del pronto soccorso, tendono ad essere evitate e i medici per farle vogliono più soldi. A mancare veramente, in realtà, sono gli infermieri.
In Italia c’è però, ad esempio, una carenza di medici di base: molti stanno andando in pensione e non sempre si trovano i sostituti. Non è una carenza da colmare cercando più medici?
C’è una fuga da certe specializzazioni come il medico di base, che dal punto di vista dello stipendio e delle prestazioni dovrebbe essere avvantaggiato. C’è bisogno di una redistribuzione delle specializzazioni. Per questo stabilire un piano annuale per definire di quanti medici c’è bisogno mi sembra che crei inutili difficoltà. Dovrebbe essere l’esame di Stato a selezionare chi si è laureato in base alla preparazione.
I numeri però dicono anche che c’è la necessità di un ricambio generazionale nella classe medica. Molti stanno andando in pensione e non è sempre facile trovare chi li rimpiazza. È così?
Eravamo l’unico Paese in Europa che non aveva il numero chiuso in medicina, così negli anni 70 si sono iscritti molti studenti: a Milano il numero di matricole era superiore a quello di tutto il Regno Unito. Negli anni 80 siamo arrivati ad avere un numero di medici per abitanti altissimo. Il Paese che ne aveva di più era Cuba, poi c’eravamo noi e quindi l’Unione Sovietica. Si tratta di medici assorbiti in maniera significativa nelle strutture pubbliche, creando una sorta di tappo per i giovani che venivano successivamente. Per questo abbiamo una delle classi mediche più anziane d’Europa. Una storia lunga nata dal rifiuto di avere il numero chiuso, che ci vuole, anche se devono essere le università a fissarlo, non lo Stato. Lo stesso discorso dovrebbe valere per altre facoltà, non solo medicina. Ci vorrebbe una vera autonomia universitaria, senza valore legale del titolo: già adesso studiare in alcune università piuttosto che in altre può cambiare molto.
Ma se le singole facoltà fissassero il loro numero programmato, in generale avremmo più medici?
Credo di no. Se facessero quello che è necessario in termini di formazione i numeri dovrebbero diminuire. Potrebbero cercare di sforare per le ragioni dette prima, allora i medici aumenterebbero.
Se sia il test che la nuova modalità di selezione lasciano perplessi, come dovrebbero essere “scremati” gli studenti?
Se fossero le singole università a decidere chi deve entrare potrebbero optare per una soluzione più accurata, perché avrebbero a che fare con molte meno richieste, valutando il curriculum di studi, tenendo colloqui e test più accurati. Bisognerebbe tornare a come era prima del numero chiuso nazionale.
Alla fine comunque il numero programmato va bene perché non abbiamo bisogno di più medici ma solo di ridistribuirli?
Abbiamo bisogno di redistribuirli e di aumentare lo stipendio dei medici per invogliarli a scegliere specializzazioni che oggi sono evitate: pronto soccorso e anestesia sopra tutte.
(Paolo Rossetti)
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