L’Arabia Saudita che vuole fare affari con gli USA e firmare gli Accordi di Abramo con Israele. L’Arabia Saudita che si è riappacificata con l’Iran grazie ai cinesi e che vuole mantenere buoni rapporti con loro. Riad, in virtù di questi contatti, potrebbe giocare un ruolo importante nella soluzione della guerra in Medio Oriente, sostituendo come mediatore Paesi come il Qatar, che finora avevano esercitato prevalentemente questo ruolo. Non per niente, in questi giorni proprio a Riad si sono riuniti i 57 Paesi della Lega araba e dell’Organizzazione della cooperazione islamica. Dall’incontro è uscita ancora la richiesta di far convivere due Stati, quello israeliano e quello palestinese. Una soluzione che in questo momento non ha nessuna possibilità di essere realizzata, dice Sherif El Sebaie, opinionista egiziano esperto di geopolitica del Medio Oriente. L’unico obiettivo credibile resta il cessate il fuoco, che permetterebbe di calmare le opinioni pubbliche arabe e di creare le condizioni minime per concretizzare gli affari che sauditi e americani hanno in mente. Netanyahu, però, dovrebbe ottenere anche la liberazione degli ostaggi. Ai partiti di estrema destra del suo governo, come contropartita, lascerebbe mano libera in Cisgiordania.
L’Arabia Saudita sta riprendendo un ruolo da protagonista nell’area. La distensione con l’Iran prosegue, ma Trump vorrebbe che Riad firmasse gli Accordi di Abramo con Israele. Come si scioglie questo nodo di interessi?
Bisogna vedere quali saranno le priorità dell’agenda di Trump. Se ci ricolleghiamo al mandato precedente, probabilmente saranno Cina e Sud Est asiatico: concentrarsi su questo vuol dire non doversi confrontare su altri fronti come Ucraina e Medio Oriente. I Paesi arabi lo avevano capito negli anni scorsi. La tendenza dell’amministrazione americana è di sganciarsi dal teatro mediorientale, per questo anche l’Arabia Saudita aveva compiuto dei passi in direzione di un’intesa con Israele. Pace e stabilità fanno bene al commercio e agli affari: se l’Arabia Saudita vuole investire nel turismo e nelle istituzioni culturali, la guerra a Gaza non conviene.
Come si muoveranno allora i sauditi con Iran e Israele?
Cercheranno di mantenere buoni rapporti con l’Iran e li sfrutteranno per tentare di avere un ruolo da mediatore che finora hanno esercitato altri Paesi come Qatar, Oman ed Emirati Arabi. Tenteranno anche di riprendere gli Accordi di Abramo perché sono vantaggiosi. A Trump conviene mantenere un buon rapporto con l’Arabia Saudita perché è il partner più importante dell’area. Nella precedente amministrazione aveva concluso affari miliardari in forniture di armi, ma in generale è un Paese che ha risorse illimitate e possibilità di investimenti in tanti nuovi settori. Bisogna vedere se la volontà di pace coincide con la volontà di Israele: questa è l’incognita della situazione.
Tel Aviv potrebbe avere progetti diversi da quelli americani? Anche dell’amico Trump?
Israele ha una sua agenda che non combacia necessariamente con gli interessi dell’amministrazione americana. Con Trump ha un feeling anti-iraniano e sa che gli è permesso di fare ciò che vuole, come d’altra parte è successo anche con Biden. Tutto dipenderà da quanto Israele si convincerà che sia suo interesse distendere il clima dell’area e prendere la strada del negoziato. Ma resta il problema Iran ed è un ostacolo non da poco.
Il vertice arabo-islamico dei giorni scorsi ha indicato ancora la strada dei due Stati come soluzione della questione palestinese. C’è qualcuno che ci crede ancora? Senza uno Stato palestinese, l’Arabia Saudita non firmerà gli Accordi di Abramo?
Quella dei due Stati è una soluzione sbandierata sulla carta, ma sotto sotto ormai nessuno ci crede più di tanto. Rimane, in teoria, un punto fermo, anche se sul terreno si va nella direzione contraria. La politica israeliana in Cisgiordania e l’occupazione di fatto di Gaza non sono passi verso la creazione di due Stati. Anche se venisse annunciata la volontà di realizzarli, bisogna vedere come farla, secondo quali passaggi. Credo che tutti si siano resi conto che la presenza israeliana, anche nei territori cosiddetti occupati, è un dato di fatto ed è destinata a rimanere a lungo. Se si vuole un rapporto normale con Israele, bisogna prendere atto di questo. I governi lo hanno ben presente, anche se davanti alle opinioni pubbliche l’aspirazione ai due Stati deve essere mantenuta.
Se i due Stati sono di fatto impossibili da realizzare, come si può mettere fine alla guerra creando le condizioni per nuovi accordi tra le nazioni della regione?
Al punto in cui siamo arrivati, già un cessate il fuoco di lunga durata accontenterebbe tutti; dopo un anno di massacri e di distruzione di Gaza, le opinioni pubbliche arabe sarebbero contente. Se in cambio ci fosse anche la restituzione degli ostaggi, compresi i corpi di coloro che hanno perso la vita, Israele sarebbe soddisfatto. Nella migliore delle ipotesi, difficile da realizzare, anche il ritiro da Gaza potrebbe essere accolto con favore dagli arabi. Ma da lì a vedere la soluzione dei due Stati ce ne corre. Non c’è mai stato un momento peggiore di questo per parlarne.
Secondo Times of Israel, nelle ultime settimane un quarto circa dei riservisti non si sarebbe presentato in servizio a causa del burnout. Anche Israele ha bisogno di fermare la guerra?
Israele sarà obbligato a fermarsi: al di là del burnout, c’è un bilancio di vittime tra i militari che è pesante. Poi c’è un problema economico: gli israeliani sono totalmente mobilitati per la guerra e l’economia sta reggendo grazie al supporto degli USA. Non dimentichiamo inoltre che c’è un problema di reputazione, di immagine pubblica a livello internazionale: in tutto il mondo ci sono episodi di antisemitismo. Se aggiungiamo che un risultato concreto e tangibile Netanyahu non lo ha ottenuto, perché Hamas è ancora lì, i combattimenti ancora in corso e gli ostaggi non ancora tornati, forse tutti questi elementi messi insieme potrebbero convincere Israele ad accettare un cessate il fuoco. Ma deve ottenere delle concessioni. Credo che il ritorno degli ostaggi e dei cadaveri di coloro che sono deceduti sia un punto fermo.
Rimane in sospeso la possibile risposta dell’Iran, attesa ormai da tempo, all’ultimo blitz di Israele. È ancora una possibilità concreta?
Probabilmente qualunque cosa dovrà succedere cercheranno di farla prima dell’insediamento del nuovo presidente americano.
Uno dei messaggi che arrivano dal vertice arabo-islamico, tuttavia, è che non bisogna toccare l’Iran.
Un’escalation regionale non è nell’interesse di nessuno, neanche di Trump, che ha vinto promettendo pace anche agli stessi musulmani americani. In Michigan, la più grande comunità araba musulmana lo ha sostenuto per questo. A meno che tutto non degeneri in questi due mesi di interregno prima che Trump si insedi.
L’ultranazionalista Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze, ha dichiarato che, vista la vittoria di Trump, potrebbe essere il momento buono per annettersi gli insediamenti dei coloni in Cisgiordania. Come potrebbe la parte che rappresenta accettare un cessate il fuoco?
Probabilmente Netanyahu potrebbe convincere Smotrich e Ben Gvir proprio dando loro mano libera in Cisgiordania. Si chiuderebbe un fronte per aprirne un altro, per il quale non vedremmo risultati drammatici in stile 7 ottobre a breve, ma fra alcuni anni sì.
(Paolo Rossetti)
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