L’attacco diretto di Israele contro l’Iran la notte di venerdì, come risposta a quello precedente dell’Iran contro Israele, contiene due segnali: a) autolimitazione per evitare escalation, come richiesto dagli Stati Uniti e dalle nazioni arabe-sunnite nei dintorni regionali; b) dissuasione: vi abbiamo mostrato in piccolo – ma non piccolissimo vista le penetrazione non contrastata di almeno un centinaio di cacciabombardieri israeliani e altro in Iran – un potere maggiore capace di distruggervi se insisterete in atti ostili diretti (ricordando che Gerusalemme è un potere nucleare anche se non dichiarato).
Ora la domanda è: siamo a una svolta dove Israele cambierà la sua strategia offensiva come reazione dissuasiva al genocidio del 7 ottobre 2023 attuato da Hamas e dai continui attacchi di Hezbollah, nonché quelli più sporadici degli Huthi e delle forze filoiraniane in Siria e Iraq, raffreddando il conflitto e ponendo un limite all’escalation oppure vi sarà una reazione iraniana e dei suoi proxy che costringerà Israele ad azioni più distruttive?
In base a conversazioni dirette sul lato israeliano ho rilevato la volontà di moderazione. Ma è una volontà guardinga, cioè sempre pronta a reazioni forti. La mia lettura, soggettiva: il Governo israeliano ha capito che azioni belliche eccessive avrebbero compromesso la relazione con i regimi arabi sunniti, in particolare Arabia, Emirati, Giordania ed Egitto (con cui si sono accordi scritti o in bozza di pacificazione e collaborazione futura, in particolare gli Accordi di Abramo del 2019). Da un lato, i Governi di queste nazioni sono favorevoli alla riduzione del potere iraniano-sciita nella regione. Dall’altro, se Israele esagera questi stessi Governi temono di non poter reggere il dissenso popolare al loro interno e nel mondo islamico in generale. E l’Arabia, pur non dicendolo, lo ha fatto ben capire in un comunicato dove ha invocato la de-escalation con toni intensi.
Un’altra mia sensazione, corroborata dalle valutazioni dei ricercatori statunitensi del mio gruppo euroamericano di ricerca, è che l’Amministrazione Biden ha capito che se vuole limitare l’azione bellica israeliana deve sia necessariamente concedere uno spazio più ampio ai requisiti di sicurezza come valutati da Israele stessa, sia rendere più certa la garanzia americana per la sicurezza di Israele. E lo ha fatto in concreto, pur sapendo di mettere a rischio la candidata democratica alle presidenziali del 5 novembre in uno Stato traballante dove sono rilevanti i voti degli islamici immigrati. Sembra che Joe Biden se ne infischi di queste prossime elezioni, dalle quali il suo partito lo ha espulso umiliandolo, e voglia entrare nella storia come efficace pompiere di un conflitto denso di rischi di estensione globale.
Aggiungo che la moderazione guardinga di Israele è sostenuta dal fatto che Hamas è stata quasi distrutta, pur non del tutto e ha ancora presenze in Cisgiordania, e che Hezbollah è stata molto indebolita. Poi aggiungo che i leader iraniani sia della teocrazia, sia delle milizie che la sostengono hanno capito che nel caso di inasprimento del conflitto la loro stessa vita è in un pericolo difficilmente evitabile. Sarà sufficiente per un primo raffreddamento del conflitto che dia più spazio a soluzioni diplomatiche?
L’Iran ha preso con sollievo la comunicazione, mediata, che l’attacco israeliano avrebbe avuto limiti. E ha fatto sapere, sempre per via mediata, che non avrebbe contro-attaccato. Ovviamente nella comunicazione interna il regime è stato baldanzoso comunicando che l’attacco è stato ben respinto. Ma restano due domande. Riuscirà Teheran a mantenere il controllo sui suoi proxy nel momento in cui questi vengono massacrati e la deterrenza iraniana non riesce a difenderli? Più delicato e da stanze chiuse: come reagiranno la Russia, che ha un profilo di difensore dell’Iran, e la Cina che vede Teheran come strumento geopolitico?
La mia sensazione è che questi attori del blocco autoritario abbiano nelle contingenze un interesse al congelamento del conflitto per salvare il salvabile della loro influenza sulla regione e avere il tempo di capire come ri-espanderla, considerando che il regime iraniano è traballante. Ma lo capiremo solo nel prossimo futuro.
Nel presente va sottolineato che Israele preferisce avere buoni rapporti con l’America, gli europei (pur a denti stretti viste le posizioni anti-israeliane di alcuni Stati dell’Ue) e i regimi arabi-sunniti piuttosto che attuare la bonifica totale dei suoi nemici. Poi va annotato che Benjamin Netanyahu è riuscito sia a recuperare il consenso interno, sia a mostrarsi capace di azioni convergenti con gli alleati. Resta lo sconcerto entro Israele per la poca o nulla comprensione da parte di molte nazioni e gruppi sociali-politici della necessità di ripristinare la deterrenza usando modi durissimi proporzionali al genocidio perpetrato il 7 ottobre 2023 combinato con gli attacchi missilistici e simili. Per la gente, particolarmente in Europa, è difficile mettersi nei panni di un ebreo o israeliano che si sente continuamente minacciato. Serve una comprensione reciproca, passo dopo passo. Ma servirà di più un incremento delle garanzie di sicurezza a Israele da parte del G7, e dei regimi sunniti, in cambio della sua moderazione. La strada non sarà breve.
L’Italia? Ha una posizione razionale in relazione al suo interesse di pacificazione del Mediterraneo costiero e profondo: tutela della sicurezza di Israele, ma riconoscimento del diritto dei palestinesi a vivere una vita degna e sicura e buone relazioni con il mondo arabo. Appunto, la strada sarà lunga e probabilmente densa di ostacoli, ma dobbiamo annotare che Israele ha fatto una svolta per iniziare a percorrerla.
www.carlopelanda.com
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