Benjamin Netanyahu “sta distruggendo anche il prezioso appoggio bipartisan Usa a Israele”. Lo denuncia Haaretz, storico quotidiano laico-progressista di Tel Aviv, sempre più riferimento mediatico di ogni opposizione al Premier. Ai molti fronti aperti nell’ultimo anno – prima dentro Israele e poi ai confini con i Territori e il Libano – “King Bibi” ne sta in effetti aggiungendo uno oltre Atlantico: dove vivono circa 7,5 milioni di ebrei, tanti quanti le statistiche ne contano fra i poco meno di 10 milioni di cittadini di Israele.
Dopo più di cento giorni di bombardamenti a tappeto a Gaza, Netanyahu è stato a sua volta colpito da un missile politico. Lo ha sparato – direttamente dallo storico hub ebraico di Brooklyn – il più senior fra gli israeliti americani detentori di un incarico pubblico elettivo: Chuck Schumer, capo della maggioranza “dem” al Senato. Il suo auspicio-appello sulla rimozione di Netanyahu – il quale sarebbe ormai “un ostacolo per la pace in Israele” – ha messo in difficoltà il Premier di Gerusalemme più di tutte le missioni del segretario di Stato Usa Antony Blinken; più di tutte le telefonate preoccupate e adirate del Presidente Joe Biden. E mentre Schumer ha condotto in questi giorni con successo una mediazione strategica a Washington – il rifinanziamento bipartisan del bilancio federale per 1,2 trilioni di dollari, anche per gli aiuti militari -, Netanyahu si è visto costretto a scavalcare un’ennesima linea rossa politico-diplomatica. Ha infatti sollecitato udienze private a tutti i senatori di Washington. Un passo sul confine dell’interferenza aperta nella campagna elettorale per le presidenziali di novembre, cioè nel duello-bis fra Biden e Donald Trump.
I senatori “dem” si sono negati al Premier israeliano, mentre i repubblicani gli hanno concesso una “zoomata” transcontinentale. E Netanyahu, secondo quanto è filtrato, non risparmiato le accuse più dure all’Amministrazione Biden, che starebbe pugnalando alle spalle la causa dello Stato ebraico. Il Premier avrebbe confermato la sua volontà di “finire il lavoro” a Gaza, ripulendola completamente per sradicare Hamas, fino all’assalto finale a Rafah.
L’effetto principale del “contrattacco” di Netanyahu al Campidoglio è stato però strettamente politico. Mike Johnson, lo Speaker repubblicano della Camera, dove il Gop è in maggioranza, ha preannunciato un invito a Netanyahu a parlare di persona al Congresso. Non è ovviamente ancora chiaro se e quando la trasferta del Premier israeliano potrà avere luogo; e soprattutto, se un eventuale discorso potrà essere tenuto davanti all’intero Congresso, senatori compresi (con la stessa dignità istituzionale del “Discorso sullo Stato dell’Unione” appena tenuto da Biden). Quel che invece è agli annali è un precedente di prima rilevanza.
Netanyahu ha già potuto prendere la parola davanti alle Camere di Washington riunite. Era il marzo 2015 ed entrambi i rami parlamentari a Washington erano a maggioranza repubblicana mentre alla Casa Bianca governava Barack Obama, con Biden come vice. L’Amministrazione “dem” era sul punto di concludere un accordo di non proliferazione nucleare con l’Iran. Il Premier israeliano volò a Washington per un ultimo e pesante monito a non distendere i rapporti con Teheran, che cercava di diventare potenza nucleare come Israele e che già allora sosteneva Hamas ed Hezbollah.
Netanyahu fallì nell’intento: l’accordo fu raggiunto entro pochi mesi (con i Big Five Onu e l’Ue al tavolo). Ma quel viaggio non fu senza effetti interni alla politica Usa. Il Premier israeliano ignorò platealmente Obama e Biden proprio quando Donald Trump stava scaldando i motori per una candidatura alla Casa Bianca inizialmente giudicata senza prospettive. Un anno e mezzo dopo fu invece eletto Presidente: anche con l’appoggio importante (e inedito) di una parte della comunità ebraica Usa, apertamente sostenuta da Netanyahu. Quest’ultimo venne ricompensato con il trasferimento a Gerusalemme dell’ambasciata Usa e soprattutto con gli “Accordi di Abramo” di inizio 2020: cioè con il riconoscimento delle strategie annessioniste dei Territori promosse della maggioranza di destra estrema alla Knesset, avvalorate dal consenso dell’Arabia Saudita. Quel patto – mai cancellato da Biden – era presumibilmente sul punto di conoscere nuovi sviluppi quando il 7 ottobre Hamas ha lanciato il suo attacco.
Nove anni dopo, con tutta evidenza, Netanyahu sta riprovando a incunearsi direttamente in Usa fra “dem” e repubblicani e a condizionare l’elezione del capo di Stato più importante del pianeta. Ma nel farlo sta ponendo l’asticella molto più in alto: nel 2015 il pre-candidato Trump non era ancora il “Male Assoluto”, il nemico di ogni civiltà democratica aborrito anzitutto dai media liberal controllati da investitori israeliti. Ma è vero che gli donatori israeliti fedeli a Netanyahu hanno rimosso in una notte il rettore afro e donna della più antica e prestigiosa università americana, accusata tout court di antisemitismo per non aver represso ad Harvard i cortei studenteschi anti-Israele. È vero che il ministro degli Esteri israeliano Israel Katz ha lanciato la fatwa più sanguinosa (“È antisemita”) contro il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres. È vero, non da ultimo, che l’ambasciata israeliana presso la Santa Sede non ha avuto esitazioni neppure a “deplorare” formalmente un Angelus di papa Francesco.
Netanyahu resta il fratello del colonnello delle forze speciali israeliane che nel 1976 comandò il blitz che liberò 102 ostaggi ebrei dirottati a Entebbe. Mai nessuna mezza misura: anche a costo della vita (Jonathan Netanyahu fu l’unica perdita del commando). Il fine della “sicurezza dello Stato di Israele” per la famiglia del Premie, spegne ogni discussione e giustifica ogni mezzo. Uccidere indiscriminatamente 30mila palestinesi di Gaza (30 a 1 rispetto ai morti israeliani provocati da Hamas il 7 ottobre) e forzarne la deportazione di 2 milioni in “lager” in preparazione nel Sinai. Oppure bombardare politicamente gli Stati Uniti. E sradicare le radici culturali – la memoria – dell’ebraismo della diaspora: negli Usa come in Europa.
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