“L’infinito, la percezione del significato ultimo è mescolato inesorabilmente con la materia, con il cervello, ed è insorto nell’evoluzione della materia stessa, non è separabile. Il linguaggio è strettamente legato al pensiero. È il grande mistero dell’uomo: polvere capace di infinito”. Mauro Ceroni, direttore dell’Unità operativa di Neurologia generale nel l’Ospedale Mondino di Pavia, condensa con queste parole il percorso che ha condiviso con Andrea Moro, neurolinguista e scrittore, professore di Linguistica generale della Scuola Universitaria Superiore Iuss. Insieme hanno aiutato a riflettere, nel corso dell’incontro al Meeting di Rimini dal titolo “La possibilità di dire io. Il mistero del linguaggio”, sull’unicità del linguaggio umano e su come questo sia espressione dell’architettura neurobiologica esclusiva della nostra specie.
Come fa l’uomo a dire io? Che cosa ci permette di poter comprendere questa parola?
Questa piccola parola che è “io” presuppone il linguaggio, cioè il fatto che noi siamo dotati di questa capacità assolutamente straordinaria, di cui ovviamente non ci rendiamo conto perché sorge in noi in maniera del tutto miracolosa quando siamo bambini. E questa capacità è squisitamente solo umana.
Perché?
Non che agli animali manchino capacità di comunicazione e pure l’uomo è capace di comunicazione non verbale, ma il linguaggio è prerogativa esclusivamente umana. Come ricorda spesso il neurolinguista e scrittore Andrea Moro, mentre gli animali hanno un dizionario di frasi e di simboli che sono sempre identici, l’uomo ha un dizionario di parole che può combinare fra loro, secondo le regole della sintassi, per esprimere contenuti infiniti. Ognuno di noi si esprime con il suo linguaggio che “racconta” la sua personalità e ciò testimonia l’infinità delle possibilità espressive del nostro linguaggio. Una combinazione infinita di elementi finiti.
Come si spiega che il “finito”, il cervello e il sistema neurologico, sia capace di “infinito”, cioè di senso, di coscienza, di linguaggio sempre ricombinato?
Qui sta il punto fondamentale di quel che è accaduto a un certo punto, quando già l’Homo Sapiens esisteva da 300mila anni, in una specie umana particolare in Africa attraverso l’evoluzione cerebrale e della laringe. Accade infatti un “salto”, che ancora non sappiamo bene come e perché sia avvenuto, grazie al quale l’uomo comincia a diventare capace di linguaggio e di coscienza, di sé e delle cose. Probabilmente è inesorabilmente legato all’insorgenza della domanda sul significato ultimo e sui nessi delle cose. Anche gli animali usano i nessi – la tecnica di caccia di un leone, per esempio, è estremamente raffinata -, ma non tengono conto di tutti i nessi. Quasi tutti i paleontologi concordano sul fatto che quel salto sia accaduto in un tempo abbastanza breve, perché è molto difficile pensare a un’evoluzione lenta del linguaggio e della presa di consapevolezza. Quando l’uomo dice “io” comprende tutto questo, non è certo una distinzione solo istintiva quella tra sé e gli altri animali.
Quel salto suggerisce l’ipotesi che il linguaggio è inscritto nel nostro cervello?
Per forza doveva esserlo e l’uomo ha dovuto evolvere fino a diventare capace anche di questo. Il linguaggio, di fatto, è legato strettamente alla struttura cerebrale.
In che modo?
La prima grande dimostrazione l’ha fornita la neurologia. Nel 1860 un medico francese, Paul Pierre Broca, si è imbattuto in un paziente il cui unico suono capace di emettere era “Tan”, espresso in modo più o meno forte, rapido o lungo. Broca lo seguì fino alla sua morte, quindi eseguì l’autopsia e scoprì che aveva un’ischemia nell’area di Broca, situata nel lobo frontale dell’emisfero cerebrale sinistro. La lesione grave di quest’area preclude la possibilità di espressione. Il paziente comprendeva benissimo gli ordini che gli impartivano, ma era assolutamente impossibilitato a esprimersi.
Nell’incontro si è parlato anche della teoria dei linguaggi impossibili. Di cosa si tratta?
I neurolinguisti della scuola di Chomsky si sono dedicati allo studio della sintassi, cioè delle regole che ci consentono di combinare le parole. I primi ricercatori hanno pensato a lungo che queste regole fossero facili, invece la sintassi dei linguaggi umani si dimostra ancora oggi molto ardua da essere compresa. C’è una frase famosa di Moro che lo spiega bene: “Il gulco gianigeva le brale”. Sono parole senza significato, se non per i due articoli. Si può cioè creare un’ortofonia molto simile alla lingua originale, in questo caso l’italiano, che obbedisce alle regole della sintassi.
Hanno in pratica cercato di separare il significato dalle parole?
Sì, così da poter avere puramente la sintassi, che è parte integrante del linguaggio, dal momento che il linguaggio è costretto a combinare le parole secondo una ricorsività, che è la caratteristica dell’aspetto infinito del linguaggio. Per molti decenni il linguaggio è stato interpretato come un sistema convenzionale, sociale di comunicazione, in cui le regole erano state stabilite a tavolino. Nel corso di un esperimento è stato insegnato a persone monolingue tedesche un italiano “sbagliato”, rudimentale.
Cosa succede?
Il centro di Broca all’inizio cerca di funzionare, poi però si spegne, perché la riconosce come lingua impossibile, in quanto fatta con una sintassi solo convenzionale, potremmo dire matematica. Dimostrare che esistono le lingue impossibili vuol dire dimostrare che tutte le lingue umane hanno in qualche modo una sintassi ultima in comune.
(Marco Biscella)
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI