Marzo 2022, ricevo una chiamata dagli organizzatori del Meeting di Rimini. Sono interessati alla mia storia avviluppata alla musica e alla letteratura. Necessario dunque dialogare con Franco Nembrini e il cantautore Dario Brunori che suona in un collettivo sotto la sigla “Brunori Sas”. La Divina Commedia e il Miguel Mañara commentati dal prof. Nembrini e le canzoni di Dario hanno favorito la mia rinascita. Dante fa scoprire ogni giorno che, da qualunque inferno si provenga, è sempre possibile uscire “a riveder le stelle!” Le canzoni di Dario ti danno la forza di ricominciare e ti tengono in piedi quando senti di crollare. Ci incontreremo il 25 agosto alle 13 al Meeting, in Sala Neri. Raggiungo Dario al telefono mentre sta traslocando da Cosenza nella sua nuova casa, appena ristrutturata. Gli chiedo se ha bisogno di un aiuto per lo sgombero dei mobili. Mi dice di raggiungerlo: «Massimo… vieni, ti aspetto. Due braccia in più farebbero comodo.» Nel frattempo, fa una pausa e lo intervisto.



 Il titolo scelto per trovarci a Rimini è preso in prestito da un tuo brano, Canzone contro la paura. Uso un’espressione leziosa: la musica fa resistere agli urti della vita. È così? 

Ci sta con la scelta della tematica per l’incontro a Rimini. Sembra ambizioso riporre in una canzone la speranza che possa cambiare l’essere umano. Però è l’effetto terapeutico che la musica sortisce su di me, ecco perché mi piace parlare di ciò che significano le canzoni. Mi hanno aiutato a superare dei momenti di crisi che stavo attraversando e soprattutto a non sentirmi solo in determinate condizioni. Grazie alla musica, interpreto gli avvenimenti in una chiave diversa, scoprendo che qualcuno, da un’altra parte, prova le stesse cose. La musica riesce ad esprimere ciò che può diventare ed è questo forse la radice della mia scrittura. Scrivo per accogliere e superare situazioni disgraziate, apparentemente dolorose e mortali, facendone invece materia viva. Quindi la restituisco al pubblico in una nuova veste, in tal senso le canzoni hanno un valore inestimabile. Rispetto ad altre espressioni artistiche, sono uno strumento che passa sottopelle perché collegate all’uso della parola. Un brano, grazie alla musica, arriva anche a chi di solito mostra un rifiuto verso una sola parola scritta. Ciò che mi spinge a scrivere canzoni è poter cantare delle cose che dette a voce potrebbero dare noia ed invece vanno a pungolare le idee. Sono un cavallo di troia, s’insinuano nel proprio modo di guardare la realtà.

In tanti parlano di te come una colonna su cui si poggia il loro risorgimento. Come reagisci di fronte a un vasto pubblico che prende sul serio ciò che canti?

Beh… penso che nessuno al mondo voglia avere questo tipo di responsabilità. Mi è capitato più volte, soprattutto negli ultimi anni e da quando la scrittura si è fatta più incline a raccontare alcune cose della vita. Mi viene da dire, alla cosentina: “Ha volutu a bicicletta e mo’ pedali.” Non posso esimermi nell’accettare i fatti che accadono intorno alle mie canzoni. Questo tipo di reazione è molto bella. Tu mi conosci e sai che tendo a mitigare le reazioni dei fan. Ricordo una ragazza che mi disse d’aver cambiato vita dopo aver ascoltato in radio il brano La Verità. Ferma in una piazzola di sosta, decise d’abbandonare il lavoro. Io le risposi: «Eh no! Proprio adesso, in un periodo storico come questo in cui che non si trova lavoro!». Una bella canzone può stimolare scelte importanti, ma è pur vero quello che canta Giovanni Lindo Ferretti nella canzone “A Tratti” dei C.S.I.: «Non fare di me un idolo, mi brucerò / Se divento un megafono m’incepperò». Cerco sempre di spostare l’attenzione da me stesso evitando un’esposizione eccessiva con il pubblico, i fan devono legarsi alle canzoni usando il buonsenso. Sento anche la necessità di tradire le aspettative o comunque di non essere ripetitivo, di non farmi trovare dove uno si aspetta di trovarmi, sempre nello stesso posto a dire le solite cose. M’interessa mantenere un rapporto di autenticità e di essere onesto in quello che scrivo.

Sei nel pieno di una tournée di grandissimo successo. Cosa accade in un concerto tra l’artista e il pubblico? Un tripudio di solitudini o si accende qualcosa negli animi dei presenti?

Un concerto può essere una forma di solitudine condivisa, dunque la solitudine non rimane. Dagli ultimi concerti fatti nei palazzetti, posso dire di sentirmi parte di una comunità che si riconosce nei valori che traspaiono dalle mie canzoni. Mi sento un po’ come te sacerdote, io che celebro un rituale, senza voler scomodare il sacro. Le persone si aggregano, si riconoscono e in qualche modo si liberano anche col canto e con il movimento dei corpi. Liberano sensazioni ed emozioni invece represse dalla società contemporanea. È nel quotidiano che si consumano solitudini e tragedie, in un concerto in qualche modo avviene una liberazione. Io e te ne abbiamo discusso in altre occasioni, ovviamente lo possiamo riportare in questa intervista. Mentre suono dal vivo, immagino di chiudere l’audio come si fa col telecomando di casa. Vedere l’immagine che ho davanti agli occhi senza musica, questi corpi che si muovono, chi alza le mani, chi si abbraccia, chi si bacia… sembra un rituale quasi ancestrale. Dopo due anni di lockdown, ho l’impressione che le persone abbiano un estremo bisogno di stare insieme e di ritrovarsi. Che poi, se ci pensi, è uno sbattimento dover andare a partecipare a un concerto, considerando la comodità a cui siamo abituati: un divano, una piattaforma in streaming e il gioco è fatto. Il concerto è un incontro in carne e ossa, un sacrificio, una vera mobilitazione collettiva.

Tempo fa abbiamo cenato insieme a Franco Nembrini. Che impressione ti ha fatto e cosa ti aspetti che accada a Rimini?

Sono contento di essere al Meeting perché mi piacciono le persone schiette come Franco. Il professore Nembrini rappresenta ciò che per me deve essere un vero intellettuale ossia una persona che è dentro la vita, dentro una relazione con il mondo e con gli altri, un ricercatore di senso. Quella sera a cena c’è stato un incontro e anche uno scontro, Franco ha un’attitudine molto sanguigna che mi è piaciuta, è un tipo verace. Anche per questo motivo mi sono convinto a partecipare, sono molto curioso di dialogare con lui. Tu mi hai spinto verso i suoi libri stimolandomi a leggerli, specie il commento alla Divina Commedia e lo farò. Purtroppo, come tanti, ho un retaggio scolastico che m’impose di leggere cose meravigliose, ma come tutte le costrizioni, non mi sono piaciute. Accadrebbe la stessa cosa se dovessero comandarmi di mangiare la parmigiana di melanzane, che per me è l’invenzione più grande del creato.

Qual è il rapporto con la letteratura? 

Con la letteratura ho sempre avuto un ottimo rapporto, essendo l’ultimo di una famiglia molto numerosa, nel senso di cugini oltre che di fratelli, a casa ho avuto tanta roba da leggere, libri e fumetti. La lettura per me era alla stregua di qualsiasi altro gioco, sin da piccolo. Puoi vivere altre vite, un libro è un moltiplicatore di esistenze, per cui mi sono approcciato alla lettura per la possibilità di allargare la mia vita agli altri. In un’epoca in cui siamo fissati sul bisogno di allungare la vita, allargherei questa esistenza verso un orizzonte nuovo e la letteratura potrebbe aiutarci in tal senso.

Canti spesso del papà scomparso qualche anno fa. È nata Fiammetta, dall’essere figlio a diventare padre come ci si sente?

Nel mio caso, il passaggio non è avvenuto completamente, sono ancora sulla linea di confine. Mi piace sentirmi padre e dunque responsabile, vivo la paternità come un’esperienza di crescita reale, è un amore adulto che vuol dire amare senza aspettarsi niente in cambio. Per la prima volta ho una certezza, la convinzione di dire “io amerò questa creatura fino alla fine dei miei giorni”. Di ciò ne sono certo, quindi è una grande cosa. Mi sento comunque ancora figlio nel rapportarmi in un modo infantile alle cose, che ci sia in me anche il lato giocoso è molto importante. Vivo tutto in modo rilassato e sereno. Ogni cosa adesso segue un certo ordine d’importanza. Perché la popolarità non diventi una prigione, è necessario costruirsi una famiglia, avere degli affetti che non siano collegati solo alla figura pubblica che poi è sempre una costruzione artificiosa. Avere un’immagine pubblica ed esibirsi significa dover essere sempre all’altezza delle attese e potrei soffrirne. La chiamano ansia da prestazione. Costruisco invece una vita autentica in cui sono Dario Brunori, sapendo che, come Clark Kent, mi posso infilare in una cabina telefonica e diventare Superman. 

Nella tua scrittura c’è un carattere religioso che spinge – più in là delle brutture – a cercare nel reale qualcosa di buono e di autentico. Don Luigi Giussani la definiva “una curiosità desiderosa destata dal presentimento del vero”.

Molte cose che scrivo mi arrivano da fuori, accade qualcosa simile all’ispirazione. Ho ricevuto una formazione cristiana, vivo secondo l’etica che proviene dal tuo mondo e ne sono felice. Lo diceva anche Pier Paolo Pasolini, cresciuto nella tradizione cattolica. Al di là del fatto che poi, col tempo, mi sono creato una forma di religiosità personale con dei valori comunque condivisibili derivanti dagli insegnamenti di molti maestri. Tu sai bene che sono appassionato di discipline orientali. I maestri di spiritualità sono geograficamente posti in tanti luoghi, ma è come se fossero segnali stradali che indicano tutti un punto ben preciso, da prospettive e da posizioni diverse. Bisogna non adorare il cartello stradale e cercare di arrivare a destinazione. Nel presente ci si affida alla tecnologia e alla materia, un approccio che non darà mai gioia alle persone. Si rifugge dalla sofferenza, relegando le situazioni dolorose della vita in un cantuccio. Così mettiamo i cimiteri fuori dalle città, i malati nascosti meglio negli ospedali, sfuggiamo alle infezioni dolorose. Sento invece il bisogno di metabolizzare alcune situazioni dolorose della mia vita, soprattutto quelle che hanno creato più attrito, quelle che mi spaventavano di più. Solo così posso realmente crescere.

Perché il dolore serve, proprio come serve la felicità.

(Massimo Granieri)

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