La figura di Dorothy Day (1897-1980) che sarà oggi al centro di un incontro al Meeting di Rimini è, purtroppo, ancora poco nota nel nostro Paese ed è difficile darne una definizione univoca e sintetica. Si tratta, infatti, di una personalità certamente eclettica ed estroversa, dalle mille sfaccettature: giornalista, scrittrice, attivista per i diritti sociali, convertita al cattolicesimo. È una donna del nostro tempo che vive drammi a noi contemporanei (un aborto, la separazione dall’uomo che amava, la fatica di crescere da sola una figlia). Nel 1933, insieme al francese Peter Maurin, fonderà a New York il Catholic Worker Movement, un giornale e un movimento di assistenza ai poveri e ai disoccupati newyorkesi nel contesto della grande depressione.
In questo contributo vorrei sottolineare due aspetti che mi sembrano caratterizzare Dorothy Day: la sua profonda inquietudine esistenziale e il suo impegno sociale così originale e radicato nell’incontro con Gesù, il Vangelo e la Chiesa cattolica. Per quanto riguarda il primo aspetto c’è un episodio, forse marginale nella vita di Dorothy ma al tempo stesso a mio avviso rivelatore dell’impeto vitale e “drammatico” che la caratterizzava. Ancora bambina ella assiste nel 1906 al terribile terremoto di San Francisco: tre quarti della città vengono distrutti con migliaia di vittime e sfollati. Come talvolta avviene in casi così drammatici, si scatena una genuina gara di solidarietà tra le persone, alla quale partecipa anche la famiglia Day: accoglienza, condivisione, fraternità.
Quasi un preludio dell’impegno di una vita della piccola Dorothy, che commenterà così, nella sua autobiografia Una lunga solitudine (1952) a distanza di anni, quei momenti: “Mentre durava la crisi, le persone si amavano”. È per lei una grande lezione che l’accompagnerà per tutta la vita: nemmeno le circostanze più tragiche e negative possono impedire alla gente di rimboccarsi le mani per aiutarsi a vicenda, sperimentando così “la felicità di agire bene, di spartire ogni cosa con gli altri”. Da qui l’intuizione, semplice, eppure così radicale: “ma perché anche nel resto del tempo la comunità non può farsi carico così generosamente dei suoi membri più fragili?”. Un’inquietudine esistenziale che la porterà alla conversione e all’incontro con Cristo e che segnerà la sua esistenza, già rivolta “naturalmente” verso la difesa degli ultimi e degli indifesi, e che la porterà ulteriormente a dedicar loro tutta una vita di servizio.
L’impegno sociale nasce dall’incontro tra questa inquietudine e una fede presa sul serio: l’incontro con Gesù spinge Dorothy all’impegno con e per i poveri, considerati davvero fratelli e sorelle, rendendola così testimone privilegiato di quella Chiesa in uscita e di quella opzione per i poveri tanto care a Papa Francesco, fino a un inesausto tentativo di voler comprendere e provare a migliorare le condizioni sociali. È una fede che si fa opere, quasi riecheggiando l’invito della Lettera di san Giacomo, opere di misericordia corporale (dare da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, vestire gli ignudi) ma anche di misericordia spirituale (insegnare agli ignoranti) visto che attraverso il giornale da lei fondato si voleva far conoscere anche ai lavoratori e disoccupati della New York degli anni 30 i principi della dottrina sociale della Chiesa.
Un cristianesimo vissuto con semplicità e radicalità, tutto il contrario di quello per agiati borghesi circondati da intellettuali acclamati dal mondo, che si intreccia con l’affronto quotidiano delle “ordinarie” sfide della propria vita, portando una rivoluzione che, prima che sociale, è personale, come ben emerge dalle parole che Dorothy rivolgeva a coloro che desideravano entrare a far parte del Catholic Worker e che forse meglio di altre riescono a sintetizzare la sua parabola esistenziale: “Comincia dal luogo nel quale vivi: identifica i doni e le necessità del tuo quartiere e metti in pratica le opere di misericordia. Onora la tua vocazione: scegli il lavoro che ti causa il maggior piacere e non aver paura di cambiare seguendo la chiamata dello spirito. Accetta il fallimento: ricorda che il lavoro di Dio è un seme che deve cadere al suolo prima di dare frutti”. La vita di Dorothy è tutto dentro una parabola di un seme che consegnandosi a Gesù e mettendosi al servizio degli altri, porta molto frutto.
I drammi personali che ha dovuto attraversare nella sua vita (l’aborto, la separazione dall’uomo che amava) e il suo impegno per i poveri, i disoccupati e i diritti dei lavoratori, per una società più giusta, più sostenibile e a favore della pace, acquistano, nel contesto contemporaneo, un sapore quasi profetico e di particolare attualità. Riscoprire oggi la figura di Dorothy Day, già dichiarata serva di Dio nel 2000 e la cui fase diocesana del processo di beatificazione è stata dichiarata conclusa l’8 dicembre 2021 dal cardinale di New York Timothy Dolan, è quindi un invito a interrogarsi sul perché valga la pena ancora oggi vivere per un ideale, piangere e amare, gioire e soffrire, costruire qualcosa di buono per sé e per gli altri, a partire dai più poveri e dagli emarginati, lasciandosi sempre guidare dalla scoperta della fede, unica dinamica dell’amore che genera quella povertà volontaria, quel coraggio, quell’umiltà e quella carità di cui tutti, in fondo, avvertiamo il bisogno e un recondito desiderio.
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