Sia lodato Gesù Cristo. Miei cari giovani amici, sono venuto da voi, al vostro tradizionale incontro, dalla Polonia, da un Paese per molti lontano, dalla Polonia che da secoli sta lottando per la propria indipendenza. È stata una lotta difficile.
Non voglio addentrarmi troppo nella storia. Solo nel corso della mia vita, abbiamo avuto di fronte dei sistemi totalitari disumani che volevano staccare la Polonia e gli altri paesi dell’Europa centro-orientale dall’ambito culturale europeo. Dapprima c’è stato il nazismo, che ha portato insieme alla seconda guerra mondiale e allo sterminio di milioni di miei connazionali; poi, grazie alle baionette dell’armata rossa, ha dominato da noi lo stalinismo, non meno terribile. E di nuovo abbiamo avuto abbrutimento, sfruttamento e sterminio. Questi due totalitarismi hanno portato per gli uni il fuoco dei forni crematori, per gli altri il freddo micidiale della Siberia. Il nazismo voleva distruggere i nostri corpi, allo stalinismo non sono bastati i nostri corpi: voleva le nostre anime.
Era cominciato un esperimento senza precedenti. Su scala nazionale, si voleva il capovolgimento della coscienza, della cultura, della tradizione. Si volevano tagliare le radici della storia della nazione e dello Stato. In una sola generazione, si voleva dare ad essi una forma totalmente nuova. Il nostro rifiuto della schiavitù, la nostra lotta per sollevarci dall’oppressione di questo sistema disumano, sono testimoniati dalle croci di coloro che hanno dato la vita nella lotta per il pane e per la libertà: le croci di Poznan, del giugno del 1956, le croci del dicembre 1970 a Stettino, Gdynia, Elblag e Danzica, ed infine le croci innalzate non molto tempo fa, durante lo stato di guerra, dopo il dicembre 1981.
La morte il più delle volte arrivava inaspettata, durante la marcia verso la libertà, ad opera di mani straniere e non. Queste croci, benché così tragiche e inutili, hanno reso più profonda la nostra convinzione che avremmo potuto vincere la violenza distruttiva solo in modo pacifico. Abbiamo raccolto questa grande sfida del mondo contemporaneo.
Dieci anni fa in agosto, nei cantieri di Danzica, cominciò uno sciopero storico, che è divenuto l’inizio della fine della vecchia epoca. Se ne andava un sistema che non stava più al passo con lo sviluppo della civiltà. Tutto il mondo ci guardava e tratteneva il respiro. Il nostro sciopero, in caso di vittoria, significava una rivoluzione e non inferiore alle precedenti, però senza spargimento di sangue. Vennero mostrate allora le foto e furono proiettate le immagini del cancello n. 2 ornato di fiori. Era il cuore del cantiere, con l’immagine della Madonna e con il ritratto del Santo Padre Giovanni Paolo II. Vennero descritte le nostre liturgie all’interno del cantiere, vennero riportate le nostre preghiere, e migliaia di immagini delle nostre confessioni sul selciato della fabbrica. Il mondo si stupì di questa rivoluzione fatta in ginocchio, ma per noi era la naturale memoria del nostro grande legame con la Chiesa, con la sua dottrina sociale.
Infatti, nella storia della Polonia era sempre accaduto che, nei momenti neri per la nazione, la Chiesa fosse insieme a noi. In essa trovavamo rifugio e forza per lo spirito. E così fu dieci anni fa, esattamente in questi giorni che adesso passiamo qui con voi, quando le sorti dello sciopero e di noi stessi erano molto incerte. Infatti, il peso di quella lotta era così grande che senza la fede non saremmo stati in grado di sopportarlo.
Abbiamo vinto. Però bisognava riempire il vuoto lasciato da un sistema disumano. Un compito difficile e che fino ad oggi nessuno si è assunto. Abbiamo cercato le nostre radici, i nostri ideali che derivavano dalla tradizione europea, dalla sua natura multinazionale, dall’esperienza dell’incontro del cristianesimo con le altre religioni. La Polonia di prima della guerra, all’interno dei suoi confini, aveva avuto anche questo tipo di esperienze.
Esse ci avevano arricchito, avevano allargato i legami culturali e avevano creato un ponte tra la cultura romana e quella bizantina. In questo incontro culturale sono cresciute le grandi figure della nostra cultura, della nostra scienza e della nostra politica. Basterebbe ricordare Ignacy Paderewski, musicista, primo ministro della rinata Repubblica, o il primo maresciallo Jòzef Pilsudski, geniale condottiero che settant’anni fa difese l’Europa dall’espansione sovietica.
Nel 1980 questa espansione è stata definitivamente battuta e abbiamo accettato una sfida che abbiamo chiamato Solidarnosc. Essa doveva liberarci dai residui del XIX secolo, dalle divisioni politiche, doveva mostrare la vera dignità dei lavoratori, doveva dare speranza a tutta la nazione e doveva mostrare al mondo una nuova via, originale, per risolvere anche i più gravi conflitti sociali. Attraverso Solidarnosc ci siamo nuovamente inseriti in Europa, in questa Europa così eterogenea, ma che in fondo ha le stesse origini cristiane della Polonia. In questa strada ci sono stati anche i pellegrinaggi del Papa. Abbiamo recuperato il senso della inviolabilità del valore e dei diritti dell’uomo e della nazione e soprattutto abbiamo recuperato il diritto di essere padroni in casa nostra, abbiamo recuperato i nostri diritti.
Adesso costruiamo le strutture di uno stato pienamente democratico, recuperiamo dalle macerie il nostro comune passato europeo e di nuovo il mondo si interessa a noi. Le nostre esperienze sono un esempio anche per altri che si stanno liberando dai sistemi totalitari. Vogliamo aggiungere alla comune casa europea questa parte d’Europa che è in rovina, ma che è molto importante. L’Europa è una e quindi comprende anche la propria parte orientale. L’Europa è a una svolta storica e quindi anche adesso bisogna raccogliere una sfida perché i valori cristiani che da secoli danno forma a questo continente non cadano. Abbiamo bisogno di capacità di convivenza, abbiamo bisogno di accettare l’eterogeneità, e non abbiano invece bisogno di lotte all’ultimo sangue tra sistemi fanatici, ideologie e religioni.
Anche la convivenza fa parte del patrimonio civile dell’Europa. E anche se la storia dell’ultimo decennio è già dietro di noi, essa è entrata per sempre nella coscienza dei polacchi, è entrata nella coscienza dell’Europa e Solidarnosc é stata iscritta nella sua eredità culturale e politica. È un capitolo chiuso, ma non è un capitolo che si può riporre in uno scaffale della storia o mettere in un deposito di oggetti usati, è un capitolo che vive perché vive la nazione che ricorda. Infatti le nazioni che perdono la memoria perdono la vita.
Ci avete voluto conoscere e siamo venuti la prima volta nel gennaio del 1981; dapprima siamo andati dal Papa, poi abbiamo incontrato i rappresentanti di molti ambienti e infine siamo stati anche sui luoghi della vostra grande tragedia, del terremoto, ad Avellino. Sono nate delle amicizie, la cui massima verifica è stato il periodo dello stato di guerra. Voi siete stati i più fedeli e quando altri volevano dimenticarci, da parte vostra sono sempre venuti segni di sostegno al nostro movimento messo fuori legge ed è sempre venuto un aiuto alla società, così grande che addirittura facciamo fatica a misurarlo. Vi ringraziamo di questo. E ancora non molto tempo fa, appena un anno fa, siamo tornati di nuovo e siamo andati dal Santo Padre, e di nuovo ci siamo incontrati con i vostri rappresentanti e nostri amici. Adesso siamo di nuovo qui. Ci avete voluto conoscere, ecco, ci siamo.
Alla fine voglio aggiungere che l’Europa dell’Est, gli stati post-comunisti, stanno cercando nuove strade. Vogliamo che tutti i valori che hanno sostenuto l’Europa possano svilupparsi in modo pluralista, e vogliamo ricreare di nuovo alcuni valori, i valori cristiani che sono un grande patrimonio, una grande eredità e un grande futuro. Guardiamo di nuovo a questi valori, guardiamo bene quali gravi danni riportiamo quando questi valori vengono messi da parte. Sono profondamente certo che potremo svilupparci in modo dignitoso e reale, solo se non perderemo nulla di questo patrimonio di cui siamo vissuti, di cui viviamo. Dobbiamo cercare e troveremo.
(Lech Walesa, Meeting di Rimini 1990)