Il rosario tra le mani di madre Teresa di Calcutta, sgranato senza sosta. L’abbraccio di Giovanni Paolo II a don Giussani nel 1982, un anno dopo l’attentato a San Pietro. Il vigoroso discorso in arabo con cui il presidente algerino, Abdelaziz Bouftelika, spiegò la sua lotta contro il terrorismo fondamentalista. E poi gli applausi a Pierluigi Bersani, la platea più tiepida con Romano Prodi, l’equivoco per cui nel 1988 il Tg2 titolò su un «feeling tra Psi e Comunione e Liberazione» per un invito a Claudio Martelli. La presenza fissa di Giulio Andreotti, dal primo incontro a oggi.
Il Meeting di Rimini compie trent’anni e la memoria di Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, è colma di straordinari ricordi. Lo spirito originario però non cambia: «Il Meeting assicura a gente che vive l’esperienza cristiana nella vita di tutti i giorni la possibilità di ascoltare e comprendere ciò che c’è di buono, di vero, di giusto nell’agire umano contemporaneo. Grazie al carisma di don Giussani, un italiano, un lombardo, un cristiano, questa curiosità ha trovato uno straordinario sbocco». Dire che mezzo mondo è passato per Rimini non significa banalizzare.
La prima figura, ed è inevitabile, è quella di Giovanni Paolo II: «Venne nel 1982, un anno dopo l’attentato. C’era in lui questa assoluta novità della riscoperta del valore universale del cattolicesimo, non come religione ideologica ma come esperienza attesa dal mondo, foriera di grandi speranze. Il muro di Berlino sarebbe caduto sette anni dopo ma con Giovanni Paolo II la percezione del nuovo era evidente». E poi madre Teresa nel 1987, «una umanità profonda permeata di fede, sempre col suo rosario in mano e una capacità di far sentire “unico” ciascun volontario».
Nel 1991 è il turno del Dalai Lama con la rivelazione di «una sintonia tra noi e lui sul tema della passione per l’Uomo, nonostante le forti differenze dottrinali. Quando parlò rammento un immenso silenzio». Proprio il silenzio, dice Vittadini, è un’altra caratteristica dominante del Meeting esattamente come il «filo rosso» dell’amicizia tra i popoli: «Saper far silenzio è una caratteristica delle nostre platee. Si fece silenzio per ascoltare il Dalai Lama, che ebbe di fronte la più grande assemblea mai convocata per ascoltarlo. Silenzio nel 1989 per Li Lu, uno dei portavoce del movimento di piazza Tienanmen, di cui non abbiamo mai più saputo nulla. Silenzio per il Rabbino di Gerusalemme, David Rosen, nel 1996. Lo stesso per Vladimir Bukovski e Tatiana Goritcheva, nel 1980, e per Andrej Tarkovskij, nel 1983, tutti dissidenti sovietici portati a Rimini da Irina Alberti in tempi in cui certe operazioni erano difficilissime».
Altro silenzio fuori dall’ordinario toccò nel 2001 a Umberto Agnelli. Vittadini si commuove ancora: «Era venuto per parlare di economia, di ruolo dell’automobile. Improvvisamente prese a parlare della morte di suo figlio Giovanni Alberto. Ammutolirono tutti, era evidente che stava veramente “accadendo” qualcosa…». Attenzione di cristallo quando Bouftelika nel 1999 parlò in arabo del dramma del suo popolo e delle terrificanti stragi fondamentaliste. La traduzione, per protocollo, arrivò a discorso finito «ma il suo messaggio era comprensibile e coinvolgente anche nella sua lingua».
In quanto agli italiani? Un episodio arriva dalla Prima Repubblica. Siamo alla fine degli anni Ottanta: «Invitammo Claudio Martelli perché aveva pubblicato un articolo in cui si confrontava costruttivamente con la scuola non statale. Il dibattito fu fecondo. Il Tg2 titolò: “Feeling tra Psi e Cl”. Nulla di vero perché la nostra cifra è l’ascolto delle ragioni altrui, senza reticenze. La sinistra è stata infatti sempre presente, qui a Rimini».
Per esempio è buono il rapporto con Massimo D’Alema, il suo esordio risale al 1991: «La caratteristica dell’uomo è la sincerità e la franchezza, anche quando le posizioni appaiono distanti, per esempio sulla scuola. Ma poi si finisce col convergere sul valore delle cooperative e sul ruolo delle fondazioni bancarie. E il fatto che D’Alema sia schietto ne fa un interlocutore apprezzato. Nel 1991 lo invitammo proprio a parlare sulla natura popolare di un partito come il Pci confrontandolo, alla fine, con l’esperienza politica cattolica». Altro leader Pd che conquista le platee di Rimini è Pierluigi Bersani: «Ha un afflato umano, una capacità di mettersi in gioco che fa pensare “questo è uno vero”…». Meno felice il contatto con Romano Prodi nel 2002, lì come presidente della Commissione Europea: «Sarà stato il suo tono, saranno stati i contenuti complessi. Ma io fremevo sul palco perché avvertitvo una platea distaccata, fredda».
E Silvio Berlusconi? «Il miglior Berlusconi che abbiamo ospitato è quello del 2000, quando era all’opposizione e il laboratorio di Forza Italia sprigionava un desiderio di cambiamento in senso liberale e non liberista, con l’uscita dallo statalismo. Anche lì ci furono emozioni vere, da parte della platea».
Ma il momento più alto e carismatico per Vittadini resta il saluto di don Giussani alla platea nel 1985: «”Vi auguro di non stare mai tranquilli”. Ovvero di esercitare sempre la curiosità, il desiderio di comprendere, la capacità di mettersi in gioco. Veramente irripetibile».
(Paolo Conti)