Grazie molte. Innanzitutto, desidero presentarmi. Mia moglie Bernadette ed io abbiamo settant’anni. Abbiamo avuto sei figli: i due maggiori, che fanno parte di ordini religiosi; altri due sono, invece, coniugati e abbiamo otto nipotini. È vero, adoro le nuvole, trovo veramente che siano un mistero insondabile, straordinario. Sono sempre stato attirato dai misteri, però mi piace molto anche l’automobile, il pneumatico, e mi piaceva anche l’idea di lavorare in fabbrica e di compiere una mansione che mi piacesse. C’è stato un certo numero di drammi che si sono verificati in fabbrica: mio padre è stato nominato amministratore della Michelin nel 1929, ed è morto in un incidente aereo nel ’32. C’era un altro figlio, Pière, che è stato nominato gerente nel ’34 e che, purtroppo è scomparso nel ’37 in un incidente stradale. E poi, tra tutte le persone che conosceva Edouard Michelin, ha scelto fra le varie persone, Puiseau, che era uno dei suoi generi.



Mio nonno è scomparso nel ’40, e Puiseau ha assicurato la gestione delle fabbriche Michelin negli anni più terribili, sotto una pressione nazista estremamente forte. E ha saputo dire no. Poi, si è opposto anche agli americani, che dicevano che avrebbero fornito la materia prima per fare girare l’apparato industriale della fabbrica a condizione, però, di potere visitare la fabbrica. E lui ha risposto: nein. I tedeschi, che incontravamo dopo la guerra e che avevano conosciuto Puiseau dicevano che era un uomo taciturno. È stato il mio tutore, nel ‘50 è stato anch’egli vittima di un gravissimo incidente stradale e, a quel punto, mi ha detto: “Devi assolutamente entrare in fabbrica”. Ed eccomi qua. Sono stato 51 anni, per la precisione, in azienda, in fabbrica, ho cominciato a fare pneumatici. Ho lavorato nel settore industriale, poi ho anche lavorato nel commerciale, ho venduto pneumatici, ho fatto ricerca. Ma, soprattutto, ho cercato di capire quali fossero i problemi delle relazioni interpersonali fra le persone che lavoravano in azienda.



Facciamo un passo indietro, torniamo al ‘38, ho questi ricordi della mia prima adolescenza. Avevo dodici anni e, assieme ai miei cugini, mio nonno ci permetteva di lavorare, di maneggiare il legno, il ferro, di acquisire, in qualche modo, le prime esperienze manuali. E qui ho conosciuto il personale della fabbrica. E subito mi sono reso conto che l’etichetta “operaio” non aveva rigorosamente alcun senso, che si trattava di uomini, di persone, proprio come me, con qualità e difetti. Ed ecco che qualsiasi nozione di classe, improvvisamente, è scomparsa ai miei occhi. E questa idea è stata con me per tutta la vita.



Vi ho raccontato quello che è stato il mio excursus: certo, mi piaceva la meteorologia, mi piacevano le nubi ma, di fronte a questa richiesta che ho avuto da Monsieur Puiseau che mi ha chiesto di partecipare, di lavorare per l’azienda, non mi sono sentito di sottrarmi. Però ho subito detto a chiare lettere che non è per il fatto di chiamarsi Michelin che per forza di cose devo essere bravo in fabbrica. Se mai non avessi saputo lavorare in modo degno del mio nome, avrebbero dovuto dirmelo subito. Siccome, comunque, mi piaceva molto il settore automobilistico e il settore dei pneumatici, questa scelta non mi ha dato veramente nessun fastidio.

Roberto Fontolan: Vorrei chiederle – forse lo ha anticipato prima – qual è stato il suo primo impatto, il suo primo pensiero con il mondo della fabbrica.

François Michelin: Ho mantenuto ottimi contatti con alcuni colleghi della scuola nella quale lavoravamo. Ne ho poi incontrati molti in fabbrica e anche fuori dalla fabbrica, e le nostre conversazioni sono sempre state estremamente interessanti. Perché questo tipo di conversazioni permette di avere una sorta di stereoscopia della vita. Ho risposto?

Roberto Fontolan: Non ancora! Venendo da fuori, anche se lei ha sempre vissuto all’interno dell’atmosfera della fabbrica, con quale pensiero, con quale senso di responsabilità, ha affrontato questa nuova fase della sua vita, questo incarico così difficile, così pesante, come quello di gestire un’azienda così grande, così complessa.

François Michelin: La prima cosa che ho constatato è che nessuno, di fatto, veniva in fabbrica per guadagnare il pane. E che, di fatto, il denaro che poi riempie la busta paga viene dalle tasche del cliente. Di conseguenza, il vero padrone della fabbrica non ero certo io, ma era il cliente. Immaginiamo delle forti giacenze di pneumatici che non si riescono a smaltire: per pagare gli stipendi bisognerebbe tagliare a listarelle gli pneumatici, ma non credo che un macellaio prenderebbe in cambio un pezzo di pneumatico contro un pezzo di carne. Quindi, la domanda che ci si poneva era quella: cosa fare affinché il cliente fosse spinto ad acquistare i nostri pneumatici? Quindi, ci siamo resi conto immediatamente che il punto era la qualità, questo era il punto chiave. Il pneumatico, che noi fabbrichiamo, corrisponde alle esigenze dell’utente? E, in secondo luogo, bisogna abbattere, per quanto possibile, i costi.

Quindi, con questi due elementi, con questi due pilastri – qualità da un lato, prezzo dall’altro – disponete già di tutti gli elementi che ci permettono di capire cos’è la vita di una impresa, di una azienda. Secondo voi, cos’è che determina la forma di un vomere di un aratro? È la volontà del contadino, o è la natura del suolo, del terreno? È certamente la natura, la conformazione del terreno. Tutto quello che viene dal cliente, e tutto quello che è materia prima, con cui si fabbrica il pneumatico, tutto questo fa parte e determina la vita e la sopravvivenza dell’azienda. Tutto il problema posto dalle relazioni interpersonali fra il personale e gli individui dell’azienda deriva da questa nozione fondamentale. Se il capo comanda soltanto perché ha questo titolo di capo, è una catastrofe. Mentre, invece, se il capo è in grado di capire i problemi, le difficoltà delle persone che lavorano, che manipolano la materia, e se è in grado di trovare le soluzioni ai loro problemi quello, sì, è un vero capo.

Si pensa sempre alla società come se si trattasse di una grande piramide, e invece è il contrario: è il cliente che comanda, e non sono certamente i vertici, i padroni che stanno al vertice – mi scuso, ma i giornalisti ci definiscono sempre così, ci mettono sempre al vertice di questa piramide, invece no, noi siamo proprio al livello terra-terra. In Italia si parla di dirigenti e di dipendenti, ma io mi chiedo: chi è il dipendente dell’altro? Chi dipende veramente dall’altro? E aspetto la risposta.

Roberto Fontolan: Non è chi fornisce lo stipendio?

François Michelin: No, perché lo stipendio viene dal lavoro di tutti, e di ognuno. E se il lavoro è mal fatto non c’è stipendio per nessuno. Ecco che il padrone è direttamente dipendente dal cliente e, via via, in tutto il ciclo di produzione – dagli apparati produttivi fino all’oggetto finale della fabbricazione – c’è tutto un insieme di dipendenze che si vengono a creare. Bisogna avere una visione realistica delle cose onde evitare di compiere errori assolutamente catastrofici.

Roberto Fontolan: Io penso che si cominci a percepire – come ho percepito io nelle conversazioni di ieri con Monsieur Michelin – una visione un po’ spiazzante rispetto alle dinamiche che siamo soliti vedere e percepire. Figuratevi, poi, io che sono un giornalista. Come giustamente dice Monsieur Michelin abbiamo una visione realmente schematica delle cose. Vorrei chiederle: quando noi pensiamo alla fabbrica, quando normalmente si pensa alla fabbrica, si pensa a un luogo innanzitutto di conflitti, di contrapposizioni. E viene automatico pensarlo. La nostra cronaca, ma anche la nostra abitudine mentale ci porta a pensare questo. Mi sorprende la sua visione diversa della fabbrica, che è anche la sua esperienza, condotta in cinquant’anni di lavoro all’interno della fabbrica. Come il luogo di una creazione comune. Mi interesserebbe avere un suo approfondimento su questo punto, perché trovo, la sua, una visione spiazzante rispetto alla nostra abitudine mentale.

François Michelin: C’era, un giorno, uno sciopero alla fabbrica di Clermont Ferrante, fabbrica chiusa, sono comunque voluto entrare in fabbrica. Al cancello c’era un delegato sindacale che conoscevo un po’ e che stava distribuendo volantini. Non ricordo più il suo nome ma ricordo che aveva due occhi blu veramente straordinari. Abbiamo iniziato a parlare un po’: “Sarò breve, secondo lei il suo padrone è un lavoratore, anche lui? Il padrone, secondo lei, lavora?” . “No – dice – secondo me, non è un lavoratore”. “Allora mi scusi, cosa devo raccontare a mia moglie, cosa devo dirle che vado a fare tutti i giorni?” ; “No, lei non è un lavoratore perché non ha lo status del lavoratore”, mi ha risposto. E poi dice: “Insomma, lei non è un lavoratore perché non riceve uno stipendio e, soprattutto, non riceve ordini. Mentre, per natura, è il padrone che dà gli ordini e l’operaio o, comunque, il dipendente che deve rispondere a questi ordini”. Io gli ho chiesto se era veramente sicuro di quello che diceva, e lui insisteva: “Ma certo, è ovvio!”. E io ho risposto: “Si, però c’è uno sciopero in fabbrica”, e lui dice: ”Si, lo so”, e io gli ho risposto: “È questo sciopero che mi dà un ordine, mi fa capire che c’è qualcosa che non funziona nella mia fabbrica”. Quando la Mercedes, la Peugeot e gli altri mi chiedono un determinato tipo di prodotto, uno pneumatico di un certo tipo, o anche la Fiat…

Roberto Fontolan: E la Ferrari?

François Michelin: E anche la Ferrari, insomma, è un problema un po’ più complesso, quello. Quando queste grosse industrie automobilistiche mi richiedono un prodotto specifico, adatto alle loro vetture, mi danno un ordine. Trasformiamo un grosso cavo metallico in un piccolo cavo metallico, una trafilatura e, se le macchine sono mal progettate, questo filamento si spezza. Quindi, ecco che è la materia prima in quel caso che ci dà un ordine, ci dice: “non avete capito in che modo manipolarmi, ricominciate le ricerche, ricominciate a lavorare”. Quindi anch’io ero un lavoratore.

La verità è che l’operaio di fatto è padrone della sua macchina e deve tenere conto degli ordini che gli vengono impartiti dalla materia prima, che sta manipolando. I principali progressi che abbiamo conseguito in fabbrica nell’ambito della chimica, in particolare, stanno proprio nell’aver compreso perché certe gomme, certe leghe funzionassero meglio di altre. Il chimico è a disposizione dei prodotti chimici, non sono i chimici ad avere creato atomi e molecole, e quindi abbiamo bisogno di persone che vogliano veramente comprendere, amino la ricerca.

Ciò che è vero nell’ambito dei problemi tecnici, meccanici o commerciali, è tanto più vero nell’ambito umano. La domanda che ci dobbiamo porre è questa: “Che cosa fare affinché le persone lavorino bene insieme? Perché ci sono difficoltà, piccoli problemi tra le persone? E perché io stesso ho delle difficoltà?”. Vediamo subito che la risposta univoca, un’unica risposta, non c’è. Perché ognuno di voi, anche in questa sala, è unico e irripetibile. Nella storia dell’umanità non troverete una persona come voi, uguale a voi. Ecco perché dobbiamo avere questo atteggiamento, questa disposizione d’animo che ci permetta di metterci all’ascolto delle persone che lavorano e vivono attorno a noi. In ogni essere umano, al di sopra delle apparenze, delle sembianze, c’è un diamante che dobbiamo potere scoprire insieme.

Ci sono, nel nostro settore, mansioni diverse: c’è quello che viene definito “il confezionatore di pneumatici”, c’è l’autista, c’è l’ingegnere, ma bisogna potere guardare al di là dell’etichetta, della superficie. Evitare di etichettare le persone per quello che fanno, ma capire quello che sono, andare al di là della loro reputazione. Farò un esempio concreto: l’ingegnere che ha inventato il radiale, che ha così rivoluzionato l’industria dei pneumatici nel mondo, è entrato in fabbrica come operaio tipografo, dovevamo metterlo in stamperia. Ma i responsabili del personale si sono subito resi conto che aveva delle qualità che andavano ben al di là di questa mansione più semplice. Gli si sono state fatte fare altre cose, e ci siamo anche accorti che aveva una fantasia assolutamente galoppante. Fantasia, forse, in francese è un po’ diverso. Immaginazione, diciamo. Immaginazione sbrigliata, però anche un carattere estremamente tenace, caparbio, e questo gli ha consentito di fare questa invenzione ed altre invenzioni straordinarie. Dunque, la domanda che dobbiamo sempre porci è questa: “Chi è la persona con la quale abbiamo a che fare? Quali sono i pregi, quali sono i suoi difetti?”. È una domanda fondamentale che dobbiamo porci tutti i giorni, perché domani mattina non saremo come oggi, e neanch’io sarò uguale. Bisogna costantemente guardare quello che sta succedendo intorno a noi.

Madre Teresa racconta che, un giorno, in un rigagnolo in una strada di Calcutta ha visto qualcosa, un fagotto che somigliava vagamente a un essere umano. Si è avvicinata ed era una donna che stava morendo. Questa donna morente ha detto a madre Teresa “È la prima volta che qualcuno mi considera una persona”. Siamo tutti, in fondo, sul ciglio della strada, nel nostro rigagnolo, con la nostra brava etichetta sulla giacca. Citerò un esempio personale: guardate il signor Michelin, subito vi verranno in mente delle idee preconcette, dei clichés. Ma se voleste capire chi è François Michelin è tutto un altro paio di maniche. Chi è François, senza Michelin, solo François come persona. Questo discorso vale per tutto, se vedete un sindacalista e lo considerate solo come tale non potrete vedere nulla di lui.

Un giorno, durante un funerale, mi sono trovato accanto a un leader sindacale della CGT, un sindacalista in pensione. Devo dire che non l’ho riconosciuto, perché ero abituato a vederlo sempre vestito da lavoro. E lui mi ha detto: “Insomma, signor François, non mi riconosce più?”. E io ho detto: “Ah, signor Jacson!”. Chiacchierando, gli ho anche detto: “Peccato che non siamo riusciti a fare delle cose insieme”. E lui mi ha risposto: “È vero, ma io non sono stato in grado di aiutarla”. Se l’avessi visto in quel momento come ex leader sindacale, forse non mi sarei neanche fermato a parlare con lui. E invece no, l’ho visto sotto altri occhi, l’ho visto come un uomo. Devo dire che, in determinate situazioni di sciopero, lui si era rivelato estremamente efficace. Questo vale per gli uomini politici, per i giornalisti, per gli interpreti. Perché avrete notato che anche l’interprete ha un cuore (interprete: “ è vero”). Ho risposto alla domanda?

Roberto Fontolan: Sì. Però ne ho subito un’altra. Ammetterà, Monsieur Michelin, di essere però una figura di imprenditore un po’ strana, o comunque diverso da quello normalmente pensiamo come imprenditore o che io, nella mia vita professionale, incontro di frequente. Lei parla di persone e non di ruoli, e noi pensiamo alla fabbrica e alla organizzazione del lavoro essenzialmente come una organizzazione di ruoli. E lei parla di diamanti nascosti nelle persone; parla di questa realtà, la realtà del cliente, la realtà della materia prima. È difficile sentire una persona che parli della materia prima con questa passione, con questa conoscenza, con questa competenza: di questa materia prima che determina il metodo del lavoro, determina l’organizzazione. E questo è molto interessante e mi permette di dire che è anche un po’ inusitato. Non si sente una persona troppo diversa dal sistema?

François Michelin: Non me ne importa nulla. Sarebbe come dire se non sono d’accordo col colore dei miei occhi.

Roberto Fontolan: ma cosa pensa dei suoi colleghi imprenditori? Ne conoscerà tanti, no? Anche perché so che la Michelin non ha buoni rapporti con la Confindustria francese, con l’associazione degli imprenditori francesi.

François Michelin: Ho qualche difficoltà a risponderle perché è un problema quasi politico. Ma cercherò di rispondere senza però cadere nella trappola politica. Nel ‘66 ricordo che la CNPF, cioè la Confindustria francese, aveva rilasciato una dichiarazione molto altisonante, dicendo cosa dovevano essere o non essere gli imprenditori. Non sono riuscito a fare inserire in questo documento il termine consumatore o cliente. Ho incontrato, qualche anno dopo, uno dei dirigenti della Confindustria francese, che mi ha rimproverato dicendomi: “Non possiamo assolutamente ammettere di essere in qualche modo comandati dai nostri clienti, o dai consumatori”. Era una sorta di umiliazione per lui. A partire da lì, ovviamente, discendeva una totale opposizione a quello che diceva la Confindustria francese, perché per noi quello era un caposaldo.

Questo era il problema di fondo; poi c’era un secondo problema, e cioè che il CNPF non voleva mai parlare di azionisti. Azionista non è reazionario (c’è un gioco di parole col francese che non è traducibile). Senza azionista non c’è denaro, non c’è fabbrica, non c’è niente. Purtroppo, lo sappiamo, lo vediamo, lo constatiamo oggi, le aziende hanno fortemente bisogno di liquidità, di denaro. E cosa si fa? Si chiede un aumento di capitale. Si chiede a qualcuno di contribuire con del denaro che, tra l’altro, non potranno mai più prelevare, se non chiedendolo agli azionisti. Giochereste al totocalcio con del denaro preso in prestito? La risposta è no. Assumereste un ingegnere con idee incredibilmente valide, di ottima qualità con denaro preso in prestito? Il denaro preso a prestito va restituito, pagandoci sopra degli interessi. Quando si trovano persone come gli azionisti, che sono abbastanza “pazze” da volere investire del denaro e aspettare un ritorno su questo investimento, sulla base della crescita dell’azienda, beh, bisogna ringraziare queste persone. Chi non ha fatto l’esperienza banale di volere comprare o costruire una casa, di essersi recato alla propria banca, essersi sentito chiedere “quale garanzia mi offre”? La straordinaria crescita industriale che abbiamo avuto in Europa negli ultimi decenni è dovuta proprio a persone che hanno assunto questo rischio finanziario, questo rischio economico. Questo tipo di rischio, sono gli azionisti che hanno deciso di sostenerlo. Un sindacato non ha mai creato un’azienda.

Roberto Fontolan: c’è una domanda.

Domanda: Volevo chiederle se si può essere felici nel lavoro.

François Michelin: Bisognerebbe fare questa domanda ai disoccupati. Mi scuso di dare questo tipo di risposta, però bisogna sempre vedere la simmetria nei problemi degli uomini. Innanzitutto, la domanda era molto importante: chiediamoci però che cosa è il lavoro. Credo di avere fatto questa domanda almeno otto volte, in azienda ma anche fuori dell’azienda. Ho fatto questa domanda anche al primo ministro francese. Ha cominciato a bofonchiare qualcosa, ma alla fine non mi ha dato una risposta, non ho capito che cosa volesse dirmi. Mi sono detto, un po’ maliziosamente, che forse aveva un atteggiamento un po’ troppo ideologico rispetto alle cose.

Un giorno eravamo in mensa con il personale di un reparto, c’erano degli operai, altri dipendenti che fanno le pulizie, non ricordo più chi avessi alla mia destra, ho fatto questa domanda: “Che cos’è il lavoro?”. E la persona che faceva le pulizie nel reparto, mi ha risposto: “Il lavoro è la vita”. E la persona che di fronte a lui ha detto: “Sì, è vero, hai ragione. Ma le condizioni del lavoro sono importanti”. E qui sta il problema per una azienda, per un’industria. Ho rivolto la stessa domanda a un ispettore dell’insegnamento di una scuola tecnica, e dice: “Il lavoro è la sofferenza”. E io gli ho chiesto: “Quando cammina, ha mal di gambe?” “No” mi risponde, “Eppure guardi che le sue gambe stanno compiendo un lavoro”.

Qui bisogna risalire a un altro problema antico, cioè la questione del peccato originale. Qualcuno decide di non abbracciare la fede cattolica, perché dice: “Che strano questo Dio, che ci dice «tu lavorerai con il sudore della tua fronte», «partorirai nella sofferenza» e così via”. Ma quando Dio dice a Eva: “che cosa hai fatto?”. E Adamo risponde: “La donna che mi hai dato, mi ha giocato”. Ma se Adamo avesse, invece, risposto: “ho peccato” o “abbiamo peccato”, le cose sarebbero state radicalmente diverse. Adamo ed Eva non hanno creduto nella misericordia di Dio, questo è il peccato fondamentale. In questo modo si sono tagliati dalla fonte che permetteva loro di comprendere la vita.

Il problema del sudore della fronte, che cosa è in fondo? Anche se non ci fosse stato il peccato originale, ci sarebbe stato il sudore e la traspirazione comunque: è un problema di regolazione termodinamica del corpo. Bisogna dare un altro senso al sudore della fronte. Questo è un punto di vista personale, spero di non essere giudicato eretico. Quando si lavora, si passa il proprio tempo a immaginare le cose che si svolgono in modo diverso da quello che si vorrebbe. Si è obbligati ad accettare il fatto che le nostre idee non siano conformi alla realtà, e questo naturalmente ferisce il nostro orgoglio. Il sudore della fronte non è nient’altro che questo, cioè il nostro orgoglio che fa fatica a piegarsi alla realtà delle cose che ci stanno vicine, alla realtà della materia prima che stiamo lavorando, della macchina sulla quale stiamo lavorando.

Questo è verissimo anche nelle relazioni interpersonali. E la forza di Comunione e Liberazione sta proprio in questo: nell’avere la forza di accettare gli altri, per vedere quello che si può costruire insieme. Trovo che in seno a Comunione a Liberazione ci sia un atteggiamento di umiltà eccezionale. Questo è proprio il cuore del vostro movimento, avrete sicuramente voglia e tenderete a volere organizzare tutto questo. Ma non si può organizzare la vita, bisogna viverla.

Domanda: volevo chiedere questo: per quanto riguarda i nuovi dirigenti, i dirigenti di oggi, pensa che si pongano nella maniera giusta verso i propri dipendenti, verso le persone che lavorano in fabbrica; o trova una diversità tra quello che è il suo pensiero e quello dei nuovi dirigenti?

François Michelin: La vita in società è possibile solo se ognuno di noi capisce le intenzioni dell’altro. Si parla dal punto di vista del responsabile dell’azienda, del padrone: se il dirigente d’aziende, il padrone, è in grado di esprimere in modo chiaro e convincente il fatto che il cliente è il vero nostro padrone, che la materia è più forte di noi, e le relazioni che si creano all’interno del gruppo sono importanti, questo sarebbe l’ideale. Io ho commesso molti errori nella mia vita da padrone, nelle scelte tecniche ma, purtroppo, mi dispiace molto di più, per quanto riguarda le relazioni con il personale. Però le persone mi hanno sempre detto: “Lei ha sbagliato, probabilmente ci ha fatto del male, ma non voleva farlo, non aveva intenzione di farlo”. La correttezza dell’intenzione, in qualche modo ripara agli errori che si commettono. Credo che qui stia la risposta alla sua domanda.

Detto questo, la vita industriale è una vita estremamente vivace, le aziende vivono tutte in modo estremamente flessibile, vivace, reagendo alle circostanze che le circondano. Lei sa chi è Gramskij? È un russo, un compagno di Stalin. A un certo punto Stalin ha deciso di mandarlo via perché si erano disputati su un punto di dottrina molto importante. Gramskij diceva: “Se vuoi fare la rivoluzione mondiale, devi cominciare dalle élite cercando il modo di rovinarle”. A Torino c’è un istituto dedicato a questa persona. Questo istituto ha svolto una indagine fra il personale della Fiat, e ha trovato il 75% delle persone d’accordo con la dirigenza. Voglio dire che c’è una realtà umana che si manifesta a seconda delle varie circostanze in modi diversi, perché la forza delle persone è forte più di qualsiasi altra organizzazione. Ho risposto? No?

Domanda: La mia domanda intendeva dire questo: le personalità che ci sono oggi, quindi i dirigenti di oggi… chiedevo se trova una affinità con il suo pensiero, quindi il suo modo di dirigere che ha utilizzato in tutti gli anni di dirigenza; oppure trova che queste persone hanno dei valori diversi, delle idee diverse, per cui trova o non trova questa affinità nelle nuove generazioni di dirigenti?

François Michelin: Poco prima avevo risposto ad una domanda dicendo che non mi importa. Il mio mestiere è di non tenere conto delle idee di moda, delle idee circolanti, ma di vedere quello che è veramente utile per l’attività che portiamo avanti. Molti dirigenti d’azienda vivono a Parigi e, quindi, per forza di cose, sono circondati, pervasi delle idee alla moda. Il mio ufficio, invece, è in fabbrica, e tutti i giorni sono a stretto contatto di gomito col personale delle catene di montaggio, della fabbricazione etc. Ci si incontra nella fabbrica, all’interno del perimetro della fabbrica e si chiacchiera. A Parigi questo non è possibile. Penso che molti dirigenti di azienda, molti padroni pensino quello che penso io ma non hanno il coraggio di dirlo. Questa, forse, è la risposta giusta alla domanda.

Domanda: volevo sapere se lei ha mai licenziato qualcuno, e quando ci sono gli estremi per un licenziamento.

François Michelin: Se fossi il padrone della Juventus, secondo lei, e se il portiere fosse veramente una schiappa, cosa dovrei farei: dovrei tenerlo o non dovrei tenerlo? È, naturalmente, una immagine un po’ provocatoria, un po’ forzata. Prendiamo l’esempio di un licenziamento che non sia dettato da motivi economici, ma proprio dal fatto che questa persona non ha le qualità, le competenze, fa del male, in qualche modo, alla nostra azienda, e che reca un nocumento alla nostra azienda, per tutta una serie di motivazioni. La prima cosa da fare è chiamarlo, convocarlo e dirgli: “Così non va, parliamone. Deve assolutamente migliorare la sua prestazione e un certo numero di punti. Riteniamo che lei sia in grado di farlo perché ne ha la capacità e l’intelligenza”. E se questa persona continua a non fare nulla, è lui a prendere la decisione di essere licenziato, capisce? L’azienda deve fare lavoro di squadra, è una squadra, e spesso ci sono degli azionisti che decidono di liberarsi dei dirigenti perché non sanno fare il loro lavoro.

Certamente licenziare qualcuno è penosissimo, davvero. Mi è capitato, a volte. Un giorno ho incontrato in Francia un Ministro del Lavoro, e si parlava proprio di questo tema dei licenziamenti. La conversazione era un po’ strana, un po’ fumosa, non capivo esattamente che cosa diceva; era un ministro socialista ma era un caso, poteva essere anche un ministro di destra. Gli ho detto: “Io penso che lei ritenga che i padroni provino una gioia sadica nel licenziare i propri dipendenti”, e a questa domanda non ho avuto alcuna risposta. Trovo che il silenzio sia una risposta terribile.

Ritroviamo un fenomeno fondamentale, mondiale, ma ancora più europeo oggi: se n’è parlato anche prima, ossia che l’azienda è considerata luogo di conflitto, di scontro, di opposizione, disarticolato. Ci sono i dirigenti, c’è il personale, ci sono i clienti: senza contatto. Ma questo, veramente, è contrario alla realtà. Questo deriva dalla filosofia marxista che non accetta che l’uomo abbia anche una dimensione spirituale, che ognuno di noi è importante col proprio lavoro, col proprio mestiere e che dobbiamo per forza cercare di capirci l’un l’altro. Ed è la liberazione che viene dalla comunione.

Domanda: Volevo chiedere: siccome il tema di oggi era “L’ideale nell’impresa”, se secondo lei l’ideale ha anche un significato economico. Giorgio Vittadini, nel presentare questo Meeting, ha detto che senza un uomo che cerca giorni felici si produce anche male. Vorrei sapere se, nella sua esperienza di imprenditore, questo è vero.

François Michelin: Bisogna cercare di essere noi stessi per potere stare bene con gli altri, più che parlare di bene e di male. Perché, se si utilizza questa forma di linguaggio, per forza di cose si entra dentro una spirale che non ci porta da nessuna parte. Amare significa vedere le cose per quello che sono. Bisogna guardare le persone intorno a noi cercando di scorgere quello che sono veramente, ed è difficile, perché noi stessi siamo in continuo cambiamento. Noi potremo divenire quello che siamo, nella misura in cui sappiamo vedere gli altri, nella misura in cui li rispettiamo, nella misura in cui amiamo le differenze. Lo specifico del cristianesimo è quello di dimostrare che c’è sempre un bene. Certo, c’è stata la crocifissione, ma c’è stata la resurrezione. Ed è in tal senso che la dottrina cattolica ha una forza straordinaria. Siamo tutte creature create da Dio per amore. La Chiesa, la Bibbia e i Vangeli ci danno le istruzioni per l’uso, per potere crescere. Ho risposto?

Domanda: Quando è venuto il Papa al Meeting, ha esordito dicendo che la prima risorsa dell’uomo è l’uomo stesso, e l’insistenza che ha in questo periodo il Papa sulla cultura cattolica in Europa, credo che abbia un riscontro anche nell’industria. Se ci dicono che queste cose che lei ci ha detto, cioè il valore della persona, nascono dalla fede, vengono censurate; se ci dicono che appartengono alla tradizione della total quality giapponese, invece gioiamo. Cioè questa è una perdita della nostra identità. Credo che ci sia un processo di ideologicizzazione molto spinto, di pauperismo che noi in Italia chiamiamo cattocomunismo. Ho avuto la fortuna di incontrare padre Sirico che l’anno scorso era qui al Meeting, della fondazione Acton e ho avuto la fortuna che mi parlasse anche di François Michelin. Vorrei chiederle cosa pensa lei di fondazioni come la fondazione Acton o di Compagnia delle Opere, che si pongono il problema di costruire, o di ricostruire, partendo dalla persona, e quindi pensando alla organizzazione, come qualcosa che è uno strumento a servizio della persona e non al di fuori di quello che può essere la visione globale della persona.

François Michelin: La total quality importata dal Giappone è, essenzialmente, per loro la qualità degli uomini e delle donne giapponesi. Abbiamo anche noi una fabbrica in Giappone, e vi è una reale collaborazione profonda degli operai sulle macchine, e di tutta la catena, per migliorare realmente la produzione. Ma ciò è possibile solo perché consideriamo ogni persona una persona.

Per quanto riguardo la fondazione Acton, come del resto per tutte le fondazioni, devono tenere conto della realtà delle cose, e non vivere in quanto entità astratte al di fuori della realtà, perché altrimenti a un certo punto c’è uno scollamento totale rispetto alla realtà. Ed è un rischio reale, un pericolo che forse è potenziale anche in Comunione e Liberazione. Faccio un esempio: non si può spiegare che cosa sia Dio, si constata che cosa ha fatto, la sua azione, ci ha fatto tutti, ha fatto il cielo, ha fatto la terra. Se un giorno ci dicessimo di avere capito Dio, probabilmente non staremmo parlando di Dio. E questo vale anche per le fondazioni. Il giorno in cui si riesce a spiegare che cosa sia una fondazione, vuole dire che è totalmente avulsa dalla realtà. Questo è il mio punto di vista.

Roberto Fontolan: Avviandoci verso la conclusione del nostro incontro, vorrei chiederle Monsieur Michelin se, in cinquant’anni di vita così intensa nella fabbrica, non ha mai avuto la tentazione di lasciare, di abbandonare, non si è mai stancato.

François Michelin: Certamente sì, come tutti.

Roberto Fontolan:E non l’ha fatto, perché?

François Michelin: Non lo so. Mio padre mi aveva detto una volte: “Tutte le nubi nere hanno sempre un bordino bianco intorno, e non dimenticare mai che gli uomini e le donne hanno sempre grandissime risorse personali”. E quando avevo voglia di mollare tutto perché non ne potevo più, andavo a vedere il personale che lavorava nei reparti e, senza star lì a leggere statistiche, rapporti interni, documenti ecc, toccavo con mano la realtà tangibile e, praticamente, ritrovavo la forza per andare avanti. Non avrei potuto fare nulla di tutto questo senza mia moglie Bernadette.

Roberto Fontolan: Le avranno chiesto tante volte ai suoi incontri frequentissimi con i suoi dipendenti, se e come si possa essere imprenditori e cosa voglia dire essere imprenditori e cristiani. In quel libro che citavo prima, lei dà una risposta che mi ha molto colpito: «Il cristianesimo – ha detto lei – spiega perché le cose sono come sono”. Volevo capire se questa frase, questa visione, questa esperienza sua del cristianesimo… come l’ha guidata concretamente nella vita quotidiana dentro la sua fabbrica?

François Michelin: Il lavoro di un qualsiasi responsabile, che sia responsabile ai massimi livelli aziendali o, anche, responsabile semplicemente della propria macchina nella catena di montaggio, è proprio quello di individuare e reperire le difficoltà e i problemi che possono sorgere e cercare di porvi rimedio. Per quanto riguarda i rapporti con se stessi e con gli altri, interpersonali, vi sono moltissime difficoltà e possono sorgere conflitti. Mi sono chiesto perché. Mi sono chiesto se il marxismo fosse una risposta a queste domande.

L’uomo nasce buono, ed è poi la società che lo corrompe, come diceva Rousseau. Tutta una serie di ideologie sulle quali ho voluto riflettere per vedere se trovavo la risposta alla domanda che lei mi ha appena rivolto. Il marxismo porta al gulag, porta alla sovietizzazione dell’educazione, non c’è più capo, non c’è più responsabile (parlo della Francia adesso). Questa risposta che andavo cercando l’ho trovata nel cristianesimo.

Quello che so è di essere un miserabile peccatore, miserabile nel senso che ho bisogno di misericordia. La Bibbia e i Vangeli, la Chiesa ci mostrano quanto Dio sia misericordioso e fino a che punto voglia la nostra salvezza. Bisogna rendersi disponibili alla misericordia, e questo è uno sforzo continuo che richiede la partecipazione ai sacramenti, la lettura di quanto dice il Magistero, il Papa, i Salmi. Ma c’è una entità straordinaria, al mondo: ed è il tempo. Come acchiappare il tempo? Dio ha creato il tempo per darci la possibilità di compiere dei progressi. Quello che ci viene chiesto, in modo molto preciso, è che ci venga dato del tempo. Anche Dio ci chiede in modo molto pressante, viene ripetuto nei testi sacri, ci chiede che gli venga dato del tempo, e anche una fase di tranquillità affinché possa operare in noi, per potere per un attimo sospendere il nostro lavorio mentale, per poterci disporre all’ascolto.

Si passano circa due ore al giorno a mangiare, più o meno; quanto tempo passiamo con Dio perché nutra la nostra anima? I pasti, più o meno, sono a ora fissa, perché il corpo umano ha bisogno di un certo ritmo; e per l’anima vale lo stesso discorso. Ha bisogno di ritmi, di cadenze, di silenzi con Dio, e questo ritmo ci impone un vero e proprio bisogno di silenzio. Senza questo non possiamo fare niente, niente di buono, intendo. E non sono io a dirlo, è Cristo: “Senza di me non potrete fare nulla”. Perché, non conoscendo i piani di Dio, rischiamo di sbagliare, di prendere un’altra strada. Mi ci è voluto parecchio tempo per capire questo. La comunione con gli uomini è possibile solo con la comunione con Dio, perché Lui ci ha creati tutti, perché ci ama come siamo con i nostri difetti, ma li vede in termini di misericordia per condurci accanto a Lui.

Vi leggerò un passo, è un salmo, il 130: “Signore, non ho il cuore fiero né lo sguardo ambizioso. Non perseguo grandi disegni né meraviglie che mi superino. No, però tengo la mia anima uguale e silenziosa, la mia anima è in me come un bambino, come un piccolo bambino sul cuore della madre. Attendi il Signore, Israele, ora e per sempre”. La madre è la vergine Maria, ma anche gli altri perché, dice Cristo: “Chi è mio fratello, chi è mia sorella? È quello che fa la volontà del Padre”. E qui sta proprio il cuore della comunione.