Non si può far sì che un fatto non sia un fatto, diceva la Scolastica di Tommaso d’Aquino. La traccia scelta per il meeting di Rimini quest’anno ci riconsegna a una delle piste fondamentali che don Giussani ha tenacemente voluto ripercorrere, per ridare “tangibilità” al fenomeno cristiano. Il Cristo che si fa Uomo non è un’alta scuola sapienziale o un banale elenco di consigli morali per vivere meglio, le due alternative in cui l’umanesimo razionalista da sempre ha cercato di ridurlo nel tentativo di riaffermare una reductio ad unum da parte di una coscienza umana intesa come unico metro e senso delle cose. Don Giussani ci ha obbligato nuovamente a prendere in considerazione il Fatto – l’avvenimento, appunto, ciò che si fa nella storia del mondo – che è la vera base fondante del Cristianesimo. E uso questo verbo “obbligare” nel senso della coazione logica da premessa a conseguenza, non nel senso di un’obbligazione etica, visto che la libertà dell’uomo resta essenziale. Uso il verbo “obbligare” perché per me proprio questo “obbligo” logico è stato l’effetto voluto da don Gius: per me ha significato molto, le sue parole come acqua tenace hanno scavato lentamente la mia pietra.



Per il Cristianesimo la fede non diventa qualcosa di realmente vissuto se non colpisce e penetra l’intelligenza che ho di me stesso e delle cose, cioè la ragione. Il processo di verifica dell’avvenimento-conoscenza mette in gioco le esperienze originarie di ciascuno di noi, in modo che ciascuno possa elaborare la propria conoscenza delle cose volgendola a certi fini. In questo consiste la cultura. Un libero processo di autoesame in cui l’io accetta di divenire, da sorgente di coscienza del reale e cioè idealmente centro del mondo, specchio periferico in cui si riflettono altre libere sorgenti di luce, pensiero e fatti reali.



La conoscenza-avvenimento è per i cristiani uno strumento affilato nel campo prioritario della filosofia, l’ontologia. La conoscenza-avvenimento separa due diverse versioni di che cosa sia, in che cosa consista e come si esplichi, l’Essere. Per il relativismo di cui si è impregnato il terribile Novecento, figlio della crisi della modernità e della prevalenza del linguaggio sulla realtà, la cultura è diventata un mero scaffale descrittivo in cui si annega la prevalenza del Non-Essere. È l’esito inevitabile di un Logos solo umano, ridotto a incapacità teorizzata di produrre scale di preferenza tra le diverse scelte e preferenze, istituzioni e organizzazioni, società e relative leggi, alle quali l’uomo può aver dato vita nella concreta esperienza storica. L’impossibilità del giudizio diventa unico criterio condiviso, se si parte dal presupposto che l’Uomo-Ragione fonda in sé e solo in sé ogni suo presupposto: al massimo – e questo vale solo per le democrazie occidentali – il criterio di giudizio diventa quello per il quale l’unico giudizio possibile è quello condiviso da una maggioranza. Ma ogni maggioranza può cambiare giudizio, e per Paesi in cui non esistano democrazie ogni giudizio basato sul monopolio della forza diventa criterio di valore di fronte al quale l’Uomo-Sola-Ragione finisce per dover piegare il ginocchio.  



Per i cristiani, la conoscenza-avvenimento del Cristo che si fa Uomo disegna un orizzonte molto diverso. Il Cristo come Fatto non è per nulla un’ipostasi mistica da contemplare tirandosi fuori dal mondo e dalle sue scelte. È lo strumento di trasformazione continua, basato sulla Persona che “vuole” Essere. E che fonda questa scoperta continua d’inveramento del sé attraverso la propria libertà, e misurandosi con ogni tipo di esperienza concreta che ci tocchi nella vita di ogni giorno: nello studio e nel lavoro, nella famiglia e nella vita associativa e ricreativa, culturale e politica.

Per me come divulgatore e studioso di economia, la conoscenza-avvenimento significa per esempio tre domande, di fronte alla più severa crisi dal secondo dopoguerra che l’intero pianeta sta affrontando da ormai due anni a questa parte. Tre domande che girerò personalmente a chi mi ascolterà al meeting, dove sono stato indegnamente chiamato a parlare proprio di don Giussani.

Prima domanda. Siamo reduci da vent’anni in cui il meglio del meglio delle intelligenze accademiche, economiche e finanziarie mondiali, aveva incentrato l’intera industria finanziaria su una teoria del valore basata sugli “intangibili”: brands, brevetti, licenze, corporate governance, reputazione. Nel creare e rivendere spacchettati prodotti finanziari a sempre più alto rischio, e con doveri di solvibilità sempre più attenuati per emittenti e intermediari, questa teoria è stata centrale. La conoscenza-avvenimento della crisi epocale che tale teoria ci ha consegnato ci obbliga a pensare a una teoria dello sconto assai più basata sul capitale umano che sugli intangibles d’impresa e banca, oppure no? Se la sentono, gli economisti d’impresa cristiani, di affrontare questa sfida producendo modelli del valore coerenti a quanto dicono nei convegni, oppure no?

Seconda domanda. Siamo reduci da decenni nei quali l’imprenditore cristiano non esiste più – tranne rare eccezioni – se non in forma di timida dichiarazione d’appartenenza, in forme associative che si dedicano soprattutto a programmi culturali o di aiuti umanitari. Nel qui-e-ora della storia che si fa avvenimento continuo, è “obbligatorio” per i cristiani tornare a cercare di dare alla dimensione cristiana del fare impresa una specificità concreta, basata su una diversa attenzione al capitale umano della propria azienda, e capace di offrire a banche e intermediari finanziari innanzitutto, e poi a propri clienti e fornitori, dipendenti ed ex dipendenti, un “valore specifico” fondato su una capacità di creare e distribuire reddito secondo un metro di preferenza incardinato sull’Uomo?

Terza domanda. Chi è e che cosa deve fare, oggi, il banchiere cristiano? Vogliamo credere davvero che la sua specificità sia solo quella – meritoria, per carità – di tenere alto il lume degli studi cristiani con finanziamenti alle libere università, dell’associazionismo sussidiario mediante i contributi delle fondazioni bancarie sul territorio, o magari di partecipare a volte ad alate conferenze sull’etica che discende da Bibbia e Vangeli? Oppure è nella sua concreta attività professionale, nella distinzione tra merito di credito ai clienti secondo classi di rischio non solo – dico “non solo”, non propongo di abolirli, ovviamente – basati su meri coefficienti patrimoniali, che il banchiere cristiano può e deve ambire a proporsi come un organizzatore “diverso” di allocazione del risparmio?

Badate bene che io non penso affatto che l’economista, l’imprenditore e il banchiere cristiano non debbano porre il profitto al centro della propria attività. Non confondo affatto pauperismo e cristianesimo. Vi faccio osservare che è il laicissimo Padoa Schioppa a scrivere, sul Corriere, che i paesi avanzati devono rassegnarsi alla crescita zero. Io non lo penso affatto. Penso invece che o il cristianesimo è capace di un incontro con l’altro capace di dar contenuto diverso alla totalità dei rapporti umani, oppure la sua comunione si stempera in uno dei tanti volti del caleidoscopio di una società senza preferenze.