John Milbank è professore di Teologia all’Università di Nottingham e ha partecipato ad un incontro molto interessante al Meeting di Rimini sul rapporto tra conoscenza ed educazione. Data l’importanza centrale dell’educazione e l’attuale crisi che ha portato a parlare di emergenza educativa, abbiamo chiesto al professor Milbank di approfondire alcuni punti del suo intervento.



Professor Milbank, nel suo intervento ha parlato di una terza via tra l’impostazione derivante dall’Illuminismo e quella improntata al Romanticismo, terza via che può essere rappresentata dal Cristianesimo. Cosa intende esattamente?

 

Penso che il secolarismo insito in queste due alternative sia nel far credere da un lato che educare significhi consentire al singolo di essere se stesso, di lasciare emergere la sua bontà naturale, la sua naturale capacità di affettività e di creatività e, dall’altro che l’educazione sia qualcosa di oggettivo, che riguarda fatti riconosciuti da tutti, processi sperimentali, procedimenti logici che non possono essere messi in discussione. L’educazione diventa quindi una modalità di indottrinamento culturale da accettare su base scientifica. Si crea così una tensione tra oggettivo pubblico da una parte e soggettivo privato dall’altra. Il Cristianesimo rappresenta un terzo modo di concepire l’educazione perché è capace di unire il pubblico con il personale, attraverso il concetto di tradizione vivente cui il singolo può apportare qualcosa di nuovo.



In che modo il cristianesimo arricchisce l’educazione?

L’essenza dell’educazione è far emergere la personalità autentica di un individuo, ma questo non può accadere lasciando che la natura da sola segua la sua strada, perché il nostro vero io è orientato verso Dio, cresce nelle relazioni con gli altri e con la propria tradizione. Perciò c’è bisogno sia della componente pubblica che di quella privata della persona, cioè non servono né Illuminismo, né Romanticismo, ma una sorta di Romanticismo cristiano.

In questo quadro, qual è il ruolo dell’insegnante? Don Giussani, che lei ha citato, parla del maestro come figura fondamentale per una vera educazione…



 

Penso che idealmente un insegnante deve essere un portatore di sapienza, non solo uno che sa tante cose, ma uno capace di correlare la conoscenza con la totalità della concezione umana, perciò capace di ciò che ho chiamato acutezza, di porre in relazione la conoscenza con l’esperienza umana. Deve essere anche capace di capire la natura dei suoi allievi, di elaborare ciò che hanno bisogno di imparare, di comprendere quali sono le loro possibilità, di riconoscere le loro potenzialità specifiche. Un maestro deve anche essere cosciente che non tutti possono fare tutto, che occorre rispettare le loro specificità, che si possono migliorare le persone, ma non si può far di loro qualcosa di diverso da quello che sono.

Lei ha posto il problema dell’educazione di massa e della necessità, diciamo così, di rivedere il concetto di educazione democratica. Quali rischi vi sono, però, di arrivare ad una società gerarchizzata per classi?

 

Credo che si possa dire il contrario. Se non si ha un senso genuino di una aristocrazia della sapienza, si arriva a una aristocrazia basata sulla terra o, ancor peggio, sul far soldi. Se la democrazia non è guidata dalla ricerca della verità, degenera nel dominio dell’opinione di massa, e il problema della opinione di massa è che si fonda su ciò che è alla moda invece che su qualcosa di profondo. Lo scopo di un’educazione democratica dovrebbe essere quello di far diventare tutti saggi e io penso che la vera saggezza sia legata all’amore e in questo senso il cristianesimo rende democratica la saggezza.

 

Don Giussani ha spesso sottolineato l’importanza dell’affezione come metodo di approccio alla realtà. Secondo lei che ruolo ha l’affezione nell’educazione?

Ritengo del tutto ragionevole l’associazione tra affezione ed educazione e che l’affezione aiuti nel cammino alla verità. In questo processo è coinvolto anche il desiderio che, in un certo senso, significa che noi già conosciamo qualcosa in anticipo e rappresenta una modalità cruciale della comprensione, nel senso che vi è sempre qualcosa che può essere aggiunto e una caratteristica della verità è che vi è sempre di più da conoscere. Il riportare tutto sotto il nostro controllo diventa una questione di potere, piuttosto che di verità.

Nel suo intervento lei ha detto che ogni nuova classe rappresenta un avvenimento. Può approfondire questa osservazione?

Non solo ogni nuova classe è un nuovo avvenimento, ma cambia anche la natura di ciò che verrà insegnato, perché non si tratta di mettere in campo gli stessi contenuti, ma di adattare ciò che si insegna ai nuovi allievi e ciò cambia lo stesso processo di trasmissione del sapere. Sotto questo profilo, Socrate è un paradigma con il suo impegno nel dialogo e nell’insegnamento. La conoscenza e la saggezza non sono separate, ma devono andare insieme.