Il titolo che ispira quest’anno il Meeting di Rimini solo apparentemente è tecnico o di esclusiva pertinenza dei filosofi. Come giustamente ha osservato nel suo discorso il professor Carmine Di Martino: «la conoscenza non è un’attività fra le altre del soggetto umano, ma la forma stessa del suo rapporto con la realtà». A questo proposito, muovendo anche dalle considerazioni svolte nell’articolo citato, vorrei proporre due spunti di riflessione, per sottolineare la portata del tema prescelto del Meeting: un tema che può costituire un filo rosso per unire e collegare, non estrinsecamente, approfondimenti e sviluppi in campi assai vari e tra loro lontani.
Il conoscere è apertura universale
Parlando di conoscenza, spesso si confondono due livelli o significati diversi: uno più ampio e universale e uno più ristretto o specifico, sicché, riducendo poi il primo al secondo, si ottiene una visione parziale e astratta della conoscenza e della sua portata; ma soprattutto – e questo è il peggio – se ne ha una concezione riduttiva. Spesso il termine “conoscenza” viene usato al plurale, e citando le “conoscenze” che uno possiede alludiamo alle nozioni, ai giudizi, alle argomentazioni con cui si cerca di conoscere, appunto, un particolare ambito del reale, o determinati aspetti od oggetti della realtà con metodi adatti. Abbiamo così le conoscenze scientifiche, che, a loro volta, si particolarizzano secondo le diverse scienze naturali; ma abbiamo pure conoscenze matematiche, teologiche, morali, estetiche, antropologiche. Tutti questi sono però significati che, per quanto generali, sono ancora derivati e secondari, rispetto a un significato primario e più universale (ma non generico) di conoscenza: così intesa essa è l’incontro in cui il reale si manifesta, secondo determinati e concreti aspetti o modalità, a una persona che lo afferra con il suo pensiero, la sua intelligenza, la sua ragione e, così afferrandolo, è in grado di coglierne il senso.
Ho parlato di persona e non di coscienza, giacché non esistono coscienze disincarnate e noi non siamo puri spiriti, ma appunto persone umane che, come già i greci e i medioevali hanno sottolineato, si caratterizzano proprio per essere “animali razionali”, ove l’animalità allude all’imprescindibile dimensione corporea, mentre la razionalità non indica tanto l’astrattezza della logica o di considerazioni lontane dalla realtà (in cui la realtà sarebbe a tal punto filtrata da essere resa quasi irriconoscibile, come un certo razionalismo moderno si è proposto di fare), quanto piuttosto si riferisce al fatto che la conoscenza coglie l’universale, e non si limita all’ambiente delimitato dalle più immediate e dirette esigenze corporee (come, ad esempio, accade negli animali).
L’universalità va poi intesa, a sua volta, secondo due ulteriori dimensioni, che si intrecciano e si implicano, ma non vanno confuse: da un lato, la conoscenza afferra, nelle singole e molteplici cose, il senso e il significato identico che le rende intelligibili; dall’altro, non c’è ambito o aspetto del reale (neppure Dio) cui, in linea di principio (formalmente) la nostra conoscenza non possa essere estesa e a cui non possa giungere. Per questi motivi, possiamo dire che conosciamo la realtà in sé stessa e non le parvenze o le apparenze o le immagini di un reale che, in se stesso, rimarrebbe ignoto. Il reale ci appare e noi lo cogliamo; ma la conoscenza non è la semplice registrazione fisica di una traccia su un corpo, come il segno del gesso sulla lavagna: se la sottolineatura della manifestazione può rinviare un momento di passività nel conoscente, la capacità di afferrare il senso implica un’attività e una partecipazione viva e volontaria. Certamente ci saranno dei tramiti fisici o psichici che potranno essere studiati e indagati; ma questi rendono possibile l’incontro con il reale, non si sostituiscono ad esso. Per conoscere il reale potremmo anche far uso di immagini, ma ciò che viene conosciuto è il reale; le immagini saranno, tutt’al più, ciò attraverso cui il reale viene conosciuto.
Inoltre, come osserva Di Martino, «le condizioni dell’esperienza vengono articolate sul potere di conoscere […], non sul potere del fenomeno di apparire»: vale a dire, il conosciuto si presenta sempre come un dato, non come qualcosa di prodotto o costituito da noi, come qualcosa in riferimento al cui apparire (e, a maggior ragione, al cui essere) non abbiamo potere. Qualcuno, ricalcando rilievi noti di matrice idealistica potrebbe forse obbiettare così: ma l’atto di conoscenza mette sullo stesso piano conoscente e conosciuto, per così dire ex aequo; sicché da esso non si può arguire alcuna priorità, né ontologica, né gnoseologica dell’uno sull’altro. Ma tale rilievo dimentica che la conoscenza effettiva non è fatta di singoli atti staccati, autonomi l’uno rispetto all’altro; la conoscenza è un fluire e una storia, in cui emerge, cioè appare, che il dato è spesso (soprattutto quando è più istruttivo: e a partire di qui si potrebbero instaurare molte non banali riflessioni pedagogiche) nuovo, inaudito, imprevisto, forse anche disturbante, non controllato o generato da noi. Certo la riflessione ontologica sarà poi necessaria per assicurare e precisare questa novità e le condizioni che la rendono possibile. Ma l’appiglio iniziale, innegabile, può già essere offerto da una riflessione sul modo in cui la nostra conoscenza abitualmente accade.
La realtà è intelligibile: ha un senso
Si è detto che conoscere significa afferrare un senso e, quindi, giudicare: conoscere è riconoscere qualcosa come qualcosa: l’oggetto che ho davanti come un libro; l’individuo che mi viene incontro come un uomo, un mio simile. E se il reale che conosciamo, in quanto conosciuto, non è nostro prodotto, anche il senso che scopriamo, in quanto scoperto e conosciuto, non è un nostro prodotto. Eppure la nostra ragione è aperta a quel reale e quel reale possiede un senso che può essere afferrato dalla nostra ragione, è cioè intellegibile. Questa riflessione, che parte dalla conoscenza, apre ovviamente un discorso, immenso e affascinante, sulla natura della realtà e sulla natura dell’uomo: come sono fatti, l’uomo e il mondo, per potersi così bene adeguare, anche se tale adeguazione è faticosa e parziale, costa sforzi e non è scevra da errori? Che cosa o Chi è all’origine di tutto per garantire questo incontro e che questo incontro abbia successo?
Qui emerge un altro aspetto: il limite della nostra conoscenza, che non deve rinserrare in un carcere, ma deve spingere e invitare a una sfida, quella di andare sempre oltre, in modo che la potenzialità formale della nostra ragione possa sempre più estendersi anche effettivamente, attualmente e concretamente. Se si confondono i due significati di conoscenza, da cui siamo partiti, si rischia di ridurre quell’ampiezza di sguardo senza limiti, in cui la conoscenza consiste, a una particolare (e necessariamente delimitata, in linea di principio) attività conoscitiva. La conoscenza in generale è limitata di fatto, perché l’uomo è finito; ma è aperta al tutto, all’infinito, così come l’uomo è aspirazione e desiderio di infinito.
Se, come scrive Giussani, «la realtà si rende evidente nell’esperienza», sarebbe certo velleitario pretendere che tutte le nostre conoscenze fossero immediatamente evidenti o che cogliessimo il senso del reale in maniera esaustiva e completa. Il riferimento a un’immediata evidenza potrà essere ricercato dal filosofo che vuole fondare la sua riflessione su alcune (e solo alcune) basi sicure; lo potrà, forse, tentare ciascuno di noi su alcune conoscenze che nella sua vita potrà acquisire e controllare direttamente; ma proprio per quella finitezza, cui prima si è accennato, la fiducia come affidamento e come fede è elemento fondamentale e vitale di ogni conoscenza e il testimone affidabile è un punto centrale per ogni umana conoscenza. Ne segue che, come osservava la Vanni Rovighi, il mistero non è qualcosa di assurdo, poiché «il mistero è l’atmosfera naturale della mia piccola intelligenza, mentre l’assurdo è negazione di intelligenza, e contro natura».