Ilsussidiario.net ha incontrato al Meeting di Rimini il filosofo Rémi Brague, docente di Filosofia araba e Filosofia medievale alla Sorbona di Parigi, nonché di Filosofia delle religioni europee a Monaco di Baviera. Ne abbiamo approfittato per fare una chiacchierata a 360° sull’attualità e su alcune delle sue tesi.



Professor Brague, in uno dei suoi libri più conosciuti, Europe, la voie romaine [in italiano è stato pubblicato sotto il titolo de Il futuro dell’occidente] si riferisce alla peculiarità romana di accettare le tradizioni precedenti, in particolare quella greca ed ebraica, e di saperle trasmettere. Quella è stata la vera grandezza di Roma. Ci sono ancora nell’Europa di oggi delle tracce di quella via romana?



In quel libro ho parlato di un certo modo di rapportarsi con le culture passate che si può riscontrare solo nella storia europea. Fuori dall’Europa non c’è stato. In questo confronto ho preso come paragone soprattutto le altre civiltà all’Europa più vicine, sia geograficamente sia per riferimenti culturali, ossia quella islamica e quella bizantina. Queste civiltà hanno avuto atteggiamenti completamente differenti verso il passato. Vedo, però, veramente poche tracce di attitudine romana nell’Europa contemporanea. Lo dichiaro da subito: su questo sono pessimista. È la mia “equazione personale”. Qua al Meeting di Rimini c’è una mostra su Galileo in cui si ricorda che l’osservatore fa sempre un certo tipo di errore; tuttavia chi fa un esperimento può calcolare gli errori che fa l’osservatore, così da prendervi le misure e tentare di correggerli. Dichiaro perciò la mia “equazione personale”, il difetto che vizia i miei ragionamenti sull’Europa: sono pessimista, di tracce di questa cifra del passato oggi in Europa non ce ne sono, e magari dovrete un po’ correggere quanto dico sotto gli effetti del mio pessimismo.



Lei ha citato civiltà del passato; ma come si pone l’Europa di oggi rispetto ad altre civiltà?

 

Oggi ci sono tre civiltà che hanno un messaggio: gli Stati Uniti, l’Islam e la Cina. Gli USA ci dicono che la storia non è finita e che non si può facilmente uscire dall’opposizione amico/nemico e che anche noi europei abbiamo dei nemici, che non tutto il mondo ci crede belli e intelligenti. L’intellettuale europeo risponde dando agli USA dei cow boys , dei rozzi. I cinesi ci dicono che non è restando con le mani in mano, a sognare senza lavorare, che ci arricchiremo: «Noi lavoriamo tanto per arricchirci»; e noi rispondiamo, come disse un noto politico francese, che «i cinesi lavorano come formiche gialle» e non possono insegnarci un bel niente. I paesi mussulmani, infine, ci dicono che se cessiamo d’avere figli spariremo; e noi rispondiamo loro dandogli dei fondamentalisti, che non hanno compreso un bel niente. Questo è lo spirito pubblico europeo, lo spirito dell’intellettuale dell’Europa contemporanea, che reagisce alle grandi sfide contemporanee chiamandosene fuori. Non accetta né critiche, né di imparare dagli altri. Questa è un comportamento anti-romano, l’Europa di oggi ha perso quella sua passata capacità di ricevere e trasmettere.

E gli Stati Uniti, tenendo la categoria della via romana, dove li colloca? Sono Europa? Sono romani? Sono anti-romani?

Non sono un esperto di relazioni internazionali, non è il mio campo, né sono stato così a lungo negli USA per potermi pronunciare in maniera netta. Per quel poco che ho conosciuto dell’America mi sembrano ormai più europei degli europei, ossia più capaci di prendere una distanza dalle cose, provare a capirle e criticarle. Sanno guardare più lontano, sono più capaci di provare delle ipotesi e di ascoltare gli altri. Quanto dico può sembrare un paradosso se si pensa ad alcune scelte recenti in politica estera della classe dirigente; però, per quanto riguarda gli intellettuali, ho la sensazione di una maggiora apertura di quella degli europei.

Il continente sudamericano è Europa? Una volta fu colonia europea; poi ha risentito della grande pressione economica del gigante americano; oggi si trova diviso tra nuovi populismi nazionalisti e fedeltà al libero mercato.

Anche l’America latina l’ho vista poco, purtroppo. Quel continente ha avuto la sfortuna d’essere mal governato, è essenzialmente un problema politico. Alla fine della II guerra mondiale l’Argentina aveva il vento in poppa; poi ha avuto dei governatori poco capaci, che non hanno saputo guidare il paese. Quindi il suo problema sinora è stato soprattutto di ordine politico. C’è però una sottolineatura d’ordine culturale da fare. L’America latina (come anche la Spagna) non ha ancora scritto la propria storia; è vittima di una storia scritta altrove, dagli europei o dagli americani. Non vede perciò le cose come le vedrebbero i latino americani. Assistiamo, ad esempio, ad una costante svalutazione del ruolo della Chiesa, perché i libri di storia sono scritti da protestanti, i quali hanno una visione o protestante o laicizzata. In tali libri, però, non si ricorda mai che gli stessi mali sociali che si imputano alla Chiesa sono presenti anche in Messico, il quale è stato governato per molti decenni da governi fortemente anticlericali e nel Brasile fieramente positivista, fin nella bandiera.

Ad ogni modo, la romanità, almeno come traccia, c’è dappertutto, perché ovunque c’è qualcosa di europeo. L’Europa, nel bene e nel male, ad un certo punto è esplosa come un fiore, e ha lasciato i propri semi dappertutto.

In un suo intervento del 2007 si era soffermato in maniera netta contro la retorica dei valori. In alcuni interventi recenti, al contrario, Papa Benedetto XVI ha una posizione più conciliante, cita la cultura dei lumi e si pone in dialogo con essa.

Ho la fortuna di essere filosofo, e Ratzinger ha la sfortuna d’essere pastore. Per me – ma il suo paragone mi fa sorridere, mi mette a disagio – è ben facile essere radicale: mi rivolgo a studiosi, mentre un pastore parla a tutti e deve per forza usare le parole che tutti conoscono. Anch’io, adesso, potrei fare riferimento ad aspetti positivi dell’epoca dei lumi, a condizione, ben inteso, che si metta dietro queste parole un contenuto più ricco e più profondo di quanto si faccia solitamente. Prendiamo i diritti dell’uomo: non è un problema essere pro o contro; tutti dicono di essere a favore. Il mio problema, però, è di capire se chi parla dei diritti dell’uomo ha un’antropologia. Mi vien voglia di chieder loro: «Voi sapete che cos’è un uomo?». La maggior parte delle persone direbbe «No». La stragrande maggioranza delle persone difende i diritti di qualcosa che non sa cos’è. A mio avviso è importantissimo difendere la dignità delle persone.

Ha evocato una parola chiave dei più accesi dibattiti che si sono svolti negli ultimi anni: dignità.

È vero: dignità è una parola pericolosa perché talvolta le vengono attribuiti dei significati assurdi. Ad esempio: per alcuni dignità implica il diritto di morire degnamente, ossia, implica il diritto che la società mi lasci solo a morire. È paradossale. Nella società di oggi il problema del dolore si pone solo in maniera marginale, come dolore fisico, come qualcosa da attenuare con la chimica; allo stesso tempo non ci si cura di accompagnare un moribondo ad una morte degna. E poi, da una parte si valorizza la dignità e i diritti dell’uomo; dall’altra abbiamo i divulgatori della scienza che continuano a ricordarci che l’uomo è un animale sfortunato, che ha troppa ragione, è complessato, apparso per caso, e che non c’è alcuna ragione per attribuire all’uomo una dignità più grande che agli altri animali.

Secondo lei, quindi, esiste un divulgatore della scienza? Lo cita come una vera e propria categoria, dotata di un suo specifico pensiero.

Il discorso della dignità e dei diritti dell’uomo maschera, dissimula e camuffa un discorso che mira al degradamento dell’uomo. Non le sembra strano? I veri scienziati non sono così: Galileo, in un passo, dice che affermare che il sole è al centro dell’universo è per la dignità dell’uomo. Darwin dice esplicitamente che con la sua nuova teoria spera di dare all’uomo una migliore vita. È interessante, invece, che i media scientisti ci raccontano di una dolosa cancellazione di questa dignità, ci dicono che l’uomo è un egoista, gretto, un animale. Tra i divulgatori della scienza si è sempre più stabilita la convinzione che l’uomo non è fatto bene, e che va rifatto (come dicono loro). Ma come può un essere imperfetto rifare l’essere perfetto? Mi piacerebbe che costoro tentassero di rispondere a questa domanda.

 

Tornando ai valori, anche questa parola nasconde un’ambiguità?

Preferisco la parola beni alla parola valori, ma bene nel senso platonico, in un senso ontologico molto forte. I valori derivano da un’operazione soggettiva di valorizzazione: sono io che do valore a qualcosa. Io dico che cosa vale; io decido che qualcosa può essere messo innanzi ad altro; io decido che qualcosa non merita di essere considerato. Così, però, la distinzione tra bene e male passa solo attraverso il soggetto. Nietzsche, nello Zarathustra, lo dice chiaramente: «Il fatto di valutare, di dare valore, è tra tutte le cose che hanno valore il tesoro e il gioiello». Al di là di tutti i valori c’è il fatto di dare un valore. Di dire «questo credo sia bene, questo credo sia sbagliato». Sono io che decido. Il fatto di decidere vale più di ciò di cui decido se è bene o male. Ed io posso ritirare questo valore, se volessi. Il problema, poi, arriva quando si decide di cambiare il valore: nulla impedisce di cambiare questi valori e di decidere in modo diverso da prima.

E la storia è piena di esempi di questa operazione, esempi spesso violenti…

Non solo: all’apertura del Meeting ha parlato un vescovo che ha detto che il cristianesimo non può essere ridotto a dei valori perché il cristianesimo è un uomo, è Gesù. Certo, è un’evidenza! Purtroppo, se si ascoltano molti cristiani sembra il contrario, una bella morale dei valori, e così lo sviliscono. Per questo sono molto prudente nell’usare la parola valori. Papa Benedetto XVI lo fa, lo fa anche spesso, ma quando lo fa è sempre in un contesto preciso, mai banale: spiega sempre il termine di riferimento dei valori a cui si riferisce e non svilisce tale parola, ma la usa propriamente.

Infine parliamo di scienza: non nota nella nostra società una certa idolatria della parola oggettivo, la quale all’atto pratico spesso diventa sinonimo di cosificare? Sembra quasi che un’azione sia tanto migliore quanto più disumanizzi, “renda cosa” un’attività umana.

 

Di questo, in una certa misura, ne parlerò il 26, qua al Meeting. Come per dignità, anche su questa parola, oggettivo, bisogna intendersi. Da una parte il desiderio di oggettività rende onore allo spirito umano: la ricerca dell’imparzialità del giudizio, di una ricerca storica sempre più esatta, il desiderio di trovare un accordo tra volontà diverse su aspetti che in fondo sono comuni a tutti, sono operazioni desiderabili. Sono delle cose belle, su cui siamo tutti d’accordo.

Però?

Però, è vero, ha ragione, spesso questo obbligo d’essere oggettivi nasconde altro, ossia che c’è qualcuno che vuole imporre all’altro una sua volontà. E questo qualcuno dice che il punto di vista dell’altro è soggettivo, e che il proprio è oggettivo. A me, allora, piacerebbe rimpiazzare questa seconda nozione di oggettivo con quella di intersoggettività: due persone maturano in un accordo provvisorio un punto di vista su una cosa; l’accento, allora, ritorna sulle persone.

C’è un altro riflesso di tale parola: il paradosso della scienza moderna, post-galileana, è che noi impariamo sempre più cose oggettive, ma che ci interessano poco. Un amico di Galileo diceva che la Bibbia insegnava come andare in cielo ma non com’è fatto il cielo. Possiamo seguire quest’idea e fare notare che mentre a tutti interessa come andare in cielo, il modo in cui il cielo è costruito non è poi così interessante per tutti. Sono interessi teorici, ma nulla ci dicono in più su come ci dobbiamo comportare. Le ha cambiato la vita sapere com’è fatto l’atomo?