Stiamo uscendo dalla crisi…

La crisi economica e finanziaria che ha colpito l’economia mondiale negli scorsi due anni sta gradualmente rientrando. Gli interventi di politica economica attuati nei maggiori paesi del mondo sono stati straordinari per tempestività, ampiezza e intensità. La caduta dell’attività si è ovunque attutita o arrestata. Eurocoin, l’indicatore elaborato dalla Banca d’Italia che riassume la crescita di fondo nell’area dell’euro, mostra ormai da cinque mesi una progressiva attenuazione della recessione. Il prodotto in Germania e in Francia ha segnato nel secondo trimestre una variazione congiunturale di segno positivo. I rischi di implosione del sistema finanziario mondiale sono stati scongiurati.



Se la sensazione prevalente a livello internazionale è che il peggio sia passato, sulla tenuta dei segnali congiunturali pesano tuttavia ancora forti incertezze. Le causa il timore che in alcune economie le ripercussioni sul mercato del lavoro siano maggiori e più persistenti dell’atteso; che la domanda per consumi e investimenti possa nuovamente indebolirsi non appena si inizi a ritirare il sostegno dei bilanci pubblici.



Anche sulla nostra economia l’impatto più duro della crisi si sta attenuando. Il momento peggiore lo abbiamo vissuto fra lo scorcio del 2008 e il trimestre iniziale di quest’anno; tutte le componenti della domanda e dell’offerta diminuivano, in una misura mai osservata dopo l’ultima guerra; i consumi delle famiglie si contraevano per due trimestri consecutivi, fatto mai accaduto prima nella storia repubblicana. In primavera il prodotto ha rallentato molto la sua discesa. In estate, la produzione industriale dovrebbe aver cessato di cadere; il clima di fiducia delle imprese e dei consumatori ha dato segni di risveglio, la domanda di autoveicoli si è ravvivata.



Secondo stime largamente condivise, nella media del 2009 la caduta del PIL rispetto all’anno precedente risulterà in Italia intorno al 5 per cento; nel prossimo anno, il graduale recupero della domanda mondiale previsto dalle maggiori organizzazioni internazionali potrebbe consentire all’economia italiana di tornare a crescere, sia pure di poco.

A frenare la recessione in Italia hanno contribuito, oltre che l’intonazione fortemente espansiva della politica monetaria e le altre misure attuate dalla BCE, gli interventi del Governo in favore delle imprese e dei lavoratori. Sono state sbloccate e meglio allocate risorse per circa 25 miliardi nel 2009-2011.

Quanto rapidamente la crisi possa essere superata continua a dipendere, da noi come nel resto del mondo, dal ripristino della piena funzionalità del mercato creditizio. Le nostre banche disponevano di solidi argini contro le conseguenze più distruttive della crisi: nella loro buona situazione patrimoniale, nella centralità del rapporto con i depositanti. Devono ora affinare – l’abbiamo più volte sottolineato – la loro capacità di selezionare il merito creditizio. Questi sono i mesi, cruciali, in cui si decide la sorte di molte aziende produttive. La stabilità degli intermediari deve potersi coniugare con il lungimirante sostegno a quelle aziende produttive che, pur illiquide, siano fondamentalmente solide.

…ma il lascito è pesante

Dalla crisi conseguiranno lezioni importanti sia per l’economia mondiale sia per quella italiana. In molte sedi sono in corso accese discussioni sul futuro del sistema finanziario e sulle conseguenze della crisi per il ruolo delle autorità pubbliche e le capacità di autocorrezione dei mercati. Molte iniziative sono state avviate in ambito internazionale con l’obiettivo di rivedere radicalmente le regole di funzionamento dei mercati finanziari e le modalità di supervisione degli operatori.

Qualunque sia l’esito del dibattito, non sarà possibile tornare, una volta passata la tempesta, alla “normalità” di prima perché la crisi ha svelato traumaticamente i limiti del modello di governo delle economie che ha accompagnato la crescita mondiale negli ultimi anni.

Nello scenario mondiale che prevarrà, le sorti dell’economia italiana dipenderanno più che mai dalla soluzione dei suoi vecchi problemi: i nodi strutturali che serrano dalla metà degli anni novanta la crescita del prodotto e della produttività, ampliando i divari nei confronti degli altri paesi industriali. La crisi non ne ha reso più facile la soluzione, anzi. La drastica contrazione degli investimenti ha ridotto la capacità produttiva potenziale. Non poche imprese (soprattutto quelle più esposte verso gli intermediari finanziari) che avevano avviato prima della crisi una promettente ristrutturazione, colte a metà del guado dal crollo della domanda, potrebbero veder frustrato il loro sforzo di adeguamento organizzativo, tecnologico, di mercato; rischiano la stessa sopravvivenza. Si aggraverebbe così la perdita di capacità, potenziale e attuale, del sistema. Un deterioramento prolungato del mercato del lavoro potrebbe compromettere la ripresa dei consumi e depauperare il capitale umano. L’espansione del debito pubblico – indispensabile per fronteggiare la crisi nel breve periodo – richiederà in futuro significative politiche correttive.

Con la crisi i problemi di struttura della nostra economia si sono fatti più urgenti. Un mero ritorno ai deboli ritmi di crescita degli anni precedenti ci condannerebbe a un arretramento ancora più netto nel novero dei paesi avanzati. E’ necessario muoversi nella prospettiva di una ricostruzione della struttura economica del Paese.

Tre problemi di struttura

I problemi strutturali della nostra economia, numerosi e noti da tempo, si annidano nei campi più vari: formazione del capitale umano, efficienza della pubblica amministrazione, infrastrutture materiali e immateriali, concorrenza, squilibri territoriali, mercato del lavoro; se ne trovano anche in ambiti non economici ma fortemente in grado di influenzare la performance del sistema economico, come la protezione sociale, la giustizia, la criminalità organizzata.

Su tre di essi, di grande rilevanza, disponiamo di analisi molto recenti che arricchiscono la nostra conoscenza, anche sotto il profilo della policy.

a. Il capitale umano

Affinché chiunque di noi decida di investire nel proprio “capitale umano”, attraverso l’istruzione e la formazione, occorre che il rendimento prospettico di questo tipo speciale di capitale sia conveniente. In Italia il beneficio che possiamo attenderci da una maggiore istruzione in termini di più alti redditi futuri, al netto dei costi dell’investimento, è modesto nel confronto internazionale; lo è per la istruzione secondaria; lo è ancor più per quella universitaria. Si è creato così un circolo vizioso, un “cattivo equilibrio”: i limitati rendimenti scoraggiano l’investimento e impediscono di raggiungere i livelli dei paesi più avanzati; a sua volta ciò frena la capacità di innovare e di adottare quelle tecnologie complementari al capitale umano che ne accrescono la domanda e i rendimenti.

Una delle ragioni di fondo di questo stato di cose è la qualità insufficiente del sistema dell’istruzione in Italia e, in particolare, la sua scarsa capacità di segnalare il merito degli studenti in termini di talento, motivazione, applicazione. Il fenomeno è più accentuato nel Mezzogiorno. è necessario che il voto sia un segnale affidabile dei livelli di apprendimento. Sotto questo profilo sono utili i test uniformi che l’INVALSI esegue da due anni su tutto il territorio nazionale nelle scuole medie inferiori. Alle verifiche devono seguire adeguate informazioni innanzitutto alle scuole sui miglioramenti nell’apprendimento registrati dagli studenti in ogni istituto, tenendo conto delle condizioni di partenza e dei contesti sociali in cui si trovano a operare. In particolare per le scuole superiori, in cui la mobilità è strutturalmente più elevata, al fine di accrescere la concorrenza è importante che le famiglie siano informate. Tutte le scuole dovrebbero godere di una maggior autonomia nella scelta degli insegnanti; quelle che conseguono risultati migliori potrebbero usufruire di incentivi finanziari.

La bassa qualità dell’istruzione scoraggia sia l’investimento in capitale umano da parte delle famiglie sia la domanda di lavoro qualificato da parte delle imprese. La bassa capacità segnaletica dei voti scolastici e universitari induce le imprese, incerte sulla effettiva qualità dei candidati all’assunzione, ad abbassare la remunerazione per ogni dato livello di istruzione, al fine di compensare il maggior rischio.

Meccanismi simili a quelli sopra menzionati per le scuole sono stati proposti e in parte attuati dal Governo per le nostre università, che secondo le valutazioni internazionali non esprimono una qualità dell’insegnamento e della ricerca pari a quella degli altri paesi avanzati.

L’impegno riformatore deve rafforzarsi ed estendersi al resto del sistema dell’istruzione. L’obiettivo civile di garantire a tutti i giovani, senza distinzione di censo, razza o fede religiosa, una istruzione adeguata, non implica necessariamente una sua bassa qualità.

b. Il mercato del lavoro e la protezione sociale

La recessione ha ridotto di poco il numero di persone occupate. Le ore lavorate sono diminuite molto più nettamente, essenzialmente per effetto dell’ampio e crescente ricorso alla Cassa integrazione guadagni: ancora in luglio il ricorso alla Cassa straordinaria – in cui sono comprese le ore autorizzate in “deroga” in base ai recenti provvedimenti governativi – è aumentato di quasi il 35 per cento sul mese precedente, al netto dei fattori stagionali. Subiscono i colpi della crisi, oltre agli occupati collocati in CIG, i lavoratori temporanei a cui non vengono rinnovati i contratti di lavoro a termine o di collaborazione e gli occupati autonomi nelle piccole imprese.

Il grado di flessibilità acquisito negli anni più recenti dal nostro mercato del lavoro permette alle imprese di affrontare le crisi attenuando i ritmi produttivi e riducendo la probabilità di una chiusura definitiva degli impianti, che porterebbe a uno spreco di risorse produttive ancora maggiore. La flessibilità favorisce anche il superamento delle crisi, consentendo un rapido aumento degli organici a fronte di segnali anche solo iniziali di ripresa.

Con riferimento alla necessità di una maggiore corrispondenza fra retribuzioni e condizioni di impresa, credo che oggi stiano maturando le condizioni per compiere progressi importanti. Si è recentemente discusso sulle possibili implicazioni per il sistema di contrattazione salariale dell’esistenza di divari fra Nord e Sud nel livello dei prezzi e nei salari; secondo le nostre stime nel settore privato i livelli dei salari reali non sarebbero peraltro molto discosti. Comunque non si tratta di imporre vincoli aggiuntivi al processo di determinazione dei salari con il ripristino delle cosiddette gabbie salariali, ma al contrario di conseguire gradi più elevati di decentramento e di flessibilità nella contrattazione. Le parti sociali si sono progressivamente orientate in questo senso, da ultimo con l’accordo recente che prevede un maggior peso della contrattazione di secondo livello.

Ai benefici della flessibilità nell’utilizzo del lavoro si contrappongono però costi che ricadono in prima battuta sugli occupati. La maggiore instabilità del posto di lavoro limita la possibilità di programmare i piani di spesa, rafforza la necessità di risparmiare per fronteggiare i periodi di disoccupazione, rende meno selettivi nella ricerca di un nuovo impiego. Ne scaturiscono effetti negativi per l’intera economia: la domanda interna è compressa a causa del risparmio precauzionale, la qualità media dei rapporti di lavoro si deteriora a scapito della produttività generale del sistema, gli incentivi all’accumulazione di capitale fisico e umano si riducono.

Un moderno sistema di protezione sociale tende a contrastare questi effetti attraverso un insieme organico di strumenti – fiscali, assicurativi e assistenziali – che durante le fasi negative garantiscono trattamenti certi e commisurati alla storia professionale del lavoratore anziché alle caratteristiche del datore di lavoro corrente, sostengono la riqualificazione dei lavoratori, premiano la ricerca di un impiego senza incentivare comportamenti opportunistici, prevedono un sostegno per le situazioni estreme.

Non esiste ancora in Italia un sistema siffatto. Vi sono strumenti utili di protezione, come la CIG, che il Governo ha opportunamente potenziato per fronteggiare la crisi e che diversi paesi, tra cui la Germania, hanno introdotto, sia pure in forme diverse, per moderare l’impatto della recessione sull’occupazione. Ma nel complesso gli strumenti esistenti hanno solo in parte accompagnato la profonda trasformazione attraversata dal mercato del lavoro. Essi oggi riflettono le stratificazioni di interventi al margine, spesso dettati da urgenze correnti; sono indirizzati a specifici segmenti dell’occupazione.

Una riforma del sistema di ammortizzatori sociali che elimini l’attuale frammentazione delle tutele favorirebbe la riallocazione dei lavoratori tra settori e imprese. Ne trarrebbero forza anche i consumi delle famiglie: direttamente, attraverso il sostegno diretto a fronte della perdita dell’impiego; indirettamente, riducendo la formazione di risparmio precauzionale.

c. Gli squilibri Nord-Sud

Il tema degli squilibri Nord-Sud è antico quanto la stessa storia dell’Italia unita. E’ stata la prima grande questione nazionale che il nostro paese ha dovuto affrontare. Con essa si sono via via cimentate con alterna fortuna diverse impostazioni di politica dello sviluppo, da quella di Francesco Saverio Nitti, all’intervento straordinario di Donato Menichella e Pasquale Saraceno, alla recente “nuova programmazione” sorta su impulso dell’allora ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi dopo l’ingresso dell’Italia nell’area dell’euro. Negli ultimi mesi ha visto la luce, anche su iniziativa della Banca d’Italia, una nuova serie di analisi sui principali aspetti della questione e sulle politiche territoriali attuate. Torneremo su queste questioni in una giornata di studio prevista per questo autunno.

Esiste oggi un consenso diffuso sul porre la rimozione delle esternalità negative (e l’esaltazione di quelle positive) al centro della politica di sviluppo territoriale, piuttosto che l’incentivo finanziario alle imprese, concepito originariamente come mezzo di compensazione dei fattori di contesto avversi e divenuto non di rado strumento opaco e inefficiente di allocazione delle risorse.

Una efficace azione di promozione dello sviluppo territoriale deve poter poggiare su politiche generali, nazionali, rivolte a tutto il Paese, i cui effetti regionali siano coerenti con essa. In altri termini, al di là del diverso grado di decentramento a cui sono affidati gli interventi, una politica di sviluppo territoriale non può che essere parte della politica economica generale: molti dei problemi del Mezzogiorno si presentano infatti come forma acuta di patologie strutturali presenti nella intera economia italiana.

Le indagini condotte sui servizi resi dalla Pubblica Amministrazione indicano sistematicamente come la qualità sia in media inferiore nel Mezzogiorno. È così per i servizi gestiti dallo Stato, dalle Regioni e dagli Enti locali. Si è già detto dell’istruzione. Divari tra il Sud e il Centro-Nord si riscontrano anche nella gestioni dei rifiuti e dell’acqua, nel trasporto locale, negli asili, nell’assistenza sociale. Il divario di spesa comunale pro capite per l’assistenza è simile a quello che si riscontrava nei primi anni Cinquanta, ai tempi dell’Indagine parlamentare sulla miseria. Sono paradigmatici i casi della sanità e della giustizia.

Nel confronto internazionale l’incidenza della spesa sanitaria pubblica sul PIL rimane nel nostro paese su livelli contenuti (circa il 7 per cento del PIL), anche se negli ultimi decenni è cresciuta a un ritmo significativamente più elevato di quello del prodotto, un andamento che in prospettiva non accennerà ad attenuarsi.

La spesa sanitaria è affidata alle Regioni dal 1979 e viene coperta in misura rilevante da trasferimenti dal centro, in misura maggiore in quelle meridionali. Tenendo conto della composizione per età della popolazione – in sostanza del fatto che gli anziani hanno bisogno di maggiori prestazioni mediche – la spesa pro capite risulta sostanzialmente uniforme nel paese. Ciò che non è uniforme è la qualità dei servizi offerti ai cittadini. Gli indicatori di inappropriatezza delle cure segnalano una condizione nettamente peggiore al Sud. La conseguenza è un flusso cospicuo e costante di pazienti dal Sud al Nord: uno spreco di risorse, uno scandalo sociale.

Le prove empiriche di una minore efficienza della giustizia nel Sud, ad esempio quelle basate sulla durata dei procedimenti, sono, pur frammentarie e difficili da costruire, sufficientemente chiare. Il contrasto alla criminalità organizzata – un problema per definizione nazionale – è più accidentato e stentato nel Mezzogiorno. Le infiltrazioni criminali nelle pubbliche amministrazioni alterano le condizioni di concorrenza, accrescono i costi per la collettività, alimentano la cultura dell’illegalità, inquinano la fiducia fra i cittadini e fra questi e le istituzioni.

In complesso, la qualità dei servizi pubblici è inferiore nel Mezzogiorno; talvolta essa è connessa con una minore entità della spesa pubblica per abitante, ma spesso la minore qualità la si riscontra anche a parità di spesa. Le analisi devono essere condotte con strumenti di valutazione indipendenti da chi eroga il servizio, basati non tanto sui fondi spesi quanto sulla qualità dei risultati. Dare più spazio alla valutazione dei risultati non implica necessariamente una contrazione della spesa. Nel caso della lotta alla criminalità, per esempio, potrebbe essere necessario aumentare la spesa per ottenere condizioni di sicurezza omogenee sul territorio nazionale. In altri casi è invece necessario recuperare efficienza.

 

La condizione per ricostruire

Non si dà ricostruzione della economia italiana senza il mantenimento della stabilità finanziaria, senza l’equilibrio dei conti pubblici. E’ ancora presto per chiudere i paracadute che stanno attutendo gli effetti della crisi, ma senza la previsione di un rinnovato impegno in tal senso le stesse prospettive di crescita risulterebbero vacue, in primo luogo per le avverse aspettative che si formerebbero sui mercati.

L’indebitamento netto è salito dall’1,5% del PIL nel 2007 al 2,7 nel 2008; secondo le stime ufficiali quest’anno raggiungerebbe il 5,3 per cento. Il debito pubblico, salito al 105,7 per cento del PIL nel 2008, toccherebbe nel 2009 il 115,3 per cento, e – sempre secondo le valutazioni del governo – il 118,2 il prossimo anno. Nel 2013 meno di un terzo dell’incremento del debito connesso con la crisi verrebbe riassorbito. E’ evidente che l’indispensabile riduzione del debito richiede da un lato un insieme di programmi strutturali di contenimento e riqualificazione della spesa corrente e dall’altro una riduzione dell’evasione fiscale. Si è iniziato a muovere in questa direzione; la riforma del ciclo di bilancio può essere di aiuto.

Non credo tuttavia che senza un netto aumento dell’età media effettiva di pensionamento, pur con tutte le garanzie necessarie per i cosiddetti lavori usuranti, sia possibile nel medio periodo conseguire risultati sufficienti in termini di minor spesa corrente. In presenza di un forte incremento della speranza di vita, l’allungamento della vita lavorativa è importante per rendere compatibili l’esigenza di contenimento della spesa pubblica con quella di garantire un reddito adeguato durante la vecchiaia; può contribuire, se accompagnato da azioni che rendano più flessibili orari e salari dei lavoratori più anziani, ad aumentare il tasso di attività e a sostenere il tasso di crescita potenziale dell’economia. Può anche consentire di destinare maggiori risorse ad altri comparti della spesa sociale.

Il mantenimento della stabilità finanziaria è a sua volta però strettamente collegato ai progressi dell’azione di ricostruzione perché – a mo’ di circolo virtuoso – dipende positivamente dal tasso di crescita che l’economia riuscirà a conseguire grazie alle stesse politiche strutturali messe in campo.

 

Non partiamo da zero

Nell’azione di ricostruzione non partiamo da zero. Possiamo anzi muovere da alcune posizioni di vantaggio.

Molte imprese sono state capaci di avviare un processo di ammodernamento tecnologico e organizzativo, anche migrando dal comparto originario per entrare in segmenti connotati da più elevata intensità tecnologica dei prodotti, come hanno mostrato le indagini della Banca d’Italia. Il ritardo di competitività che si è accumulato dalla metà degli anni novanta è ancora ampio, ma il quadro che emerge è dinamico. Ciò indica che non pochi imprenditori sanno ancora far bene il loro mestiere, così come è stato in altri importanti periodi della storia italiana.

Disponiamo poi di una altra risorsa, potenzialmente di grande rilevanza per la nostra economia, la disponibilità di lavoro straniero; ma potremo utilizzarla solo se saranno governati i gravi problemi che essa pone sotto il profilo della integrazione sociale e culturale. Fino agli anni ottanta il saldo migratorio dell’Italia è stato negativo; negli ultimi venti anni il numero di stranieri residenti è progressivamente salito fino a 3,4 milioni all’inizio del 2008 (il 6 per cento della popolazione). Tenendo conto delle persone presenti ma non iscritte alle anagrafi e di quelle che non dispongono di un permesso di soggiorno il numero complessivo dovrebbe essere pari alla stessa data a circa 4,3 milioni.

I cittadini stranieri in Italia sono in media più giovani e meno istruiti degli italiani ma partecipano in misura maggiore al mercato del lavoro e svolgono mansioni spesso importanti per la società e l’economia italiane, anche se poco retribuite. Non si rilevano d’altra parte conseguenze negative apprezzabili sulle prospettive occupazionali degli italiani, un risultato che emerge dalla grande maggioranza degli studi svolti nei paesi a elevata immigrazione.

Affinché la nostra economia colga appieno l’opportunità offerta dal lavoro straniero occorre combattere la tendenza alla marginalizzazione degli studenti stranieri in atto nel sistema di istruzione italiano. La segnalano i ritardi di apprendimento, significativi già nella scuola primaria, e gli elevati tassi di abbandono nei gradi scolastici successivi; vi contribuisce solo in parte l’esposizione a contesti familiari meno favorevoli. Esercizi basati su recenti proiezioni demografiche dell’Istat suggeriscono che entro il 2050 circa un terzo delle persone residenti in Italia con meno di 24 anni avrà almeno un genitore straniero, un valore in linea con quello registrato oggi negli Usa e in Canada. Questo significa che la componente straniera della popolazione contribuirà in misura significativa a determinare il livello e la qualità del capitale umano su cui si fonderà la nostra economia, condizionandone il ritmo di crescita.

Un terzo punto di forza discende dai primi interventi messi in cantiere negli ultimi anni. Sono stati compiuti passi significativi per avviare riforme nel settore del mercato del lavoro e dell’istruzione nonché nella direzione di rafforzare la concorrenza in alcuni settori tradizionalmente “protetti”, generando benefici apprezzabili per i consumatori e per l’occupazione. La recente riforma della pubblica amministrazione s’incentra su un largo spettro di interventi e pone al centro importanti principi quali la trasparenza e il collegamento fra retribuzione e performance; gli effetti sulla qualità dell’azione amministrativa dipenderanno naturalmente dalle modalità di attuazione.

Una riforma ancora più impegnativa, il federalismo fiscale, avrà riflessi diretti su tutti i problemi strutturali italiani, in particolare sui tre di cui ho brevemente detto. Essa può contribuire in misura decisiva a una allocazione più efficiente dei compiti affidati ai vari livelli dell’amministrazione pubblica. La Banca d’Italia ha sottolineato più volte come la condizione necessaria affinché il federalismo fiscale produca i benefici che se ne attendono è che esso sia effettivo e non virtuale, cioè che si stabilisca un collegamento stretto fra decisioni di spesa e decisioni di entrata, fermo restando il principio di solidarietà.

L’ultimo vantaggio che scorgo è di natura più generale. Credo si possa affermare che i problemi di struttura dell’economia italiana – sicuramente i tre che ho toccato prima – sono sufficientemente ben definiti sotto il profilo analitico, con una sostanziale convergenza di un largo spettro di forze politiche e sociali. Lo stesso si può dire circa gli effetti della crisi su di essi, e sull’accresciuta urgenza che ne discende per le riforme da avviare o da accelerare.

Se il quadro analitico è, a grandi linee, condiviso, la domanda successiva che dobbiamo porci è: esiste oggi in Italia un consenso di fondo sui tratti fondamentali delle riforme volte a ricostruire l’economia e sui valori che dovrebbero ispirarle?

L’apertura alle capacità, ai talenti, al merito, alla concorrenza è un valore oggi condiviso da una grande maggioranza; è il mezzo principale per contrastare corporazioni, rendite, clientele che gravano sulla crescita del Paese.

L’eguaglianza delle opportunità è uno strumento che avvantaggia anche i meno capaci, grazie all’incremento di efficienza conseguito dal sistema nel suo complesso. Essa implica però il rischio che vantaggi e svantaggi sociali siano generati dalla distribuzione naturale dei talenti o dalle diverse possibilità di sviluppo di questi ultimi determinate da contesti sociali e familiari disomogenei. Occorre quindi una istanza compensativa di natura etica, ispirata all’ideale di solidarietà.

Il rapporto fra la ricerca umana di benessere materiale e la carità cristiana, affrontato da ultimo anche dalla Caritas in veritate di Benedetto XVI, percorre la dottrina sociale della Chiesa cattolica. Valutazioni di natura etica compaiono sempre più spesso anche nella ricerca teorica in economia.

I tre problemi di struttura dell’economia italiana che ho prima evocato richiedono allo stesso tempo apertura al merito e solidarietà, ricerca dell’efficienza e equità.

È così per l’istruzione, all’esigenza di far emergere e sospingere le scuole e gli studenti più meritevoli deve corrispondere l’obiettivo di garantire a tutti i ragazzi e le ragazze un livello adeguato di conoscenze senza privilegi di sorta, eticamente inaccettabili. La costruzione di un sistema di protezione sociale universale e omogeneo risponde insieme ai bisogni di una più elevata efficienza (sfuggire a tendenze particolaristiche, talvolta espressioni di un potere di rendita) e al fine di promuovere una copertura generalizzata, aperta a tutti, contro i rischi di disoccupazione. Lo sviluppo del Sud merita di essere perseguito per rendere le condizioni di vita dei cittadini meridionali più simili a quelle esistenti nel Nord, ma anche per imprimere un impulso alla crescita del Mezzogiorno e dell’intera economia nazionale.

Le opzioni di politica economica che abbiamo di fronte si situano in un terreno comune, condiviso: un bene di grande valore per uscire dalla crisi con slancio e riprendere quella crescita che il Paese ha saputo sostenere nell’arco di un trentennio dopo la guerra.