Asfa Mahmoud, presidente della Casa della cultura islamica di Milano, non se lo era mai immaginato così. Il Meeting di Rimini lo ha sorpreso, in positivo. «Mi sono trovato di fronte ad una cosa completamente inaspettata, che non immaginavo, per dimensioni e apertura intellettuale, per una posizione di disponibilità verso ciò che è diverso. Non è frequente in Italia». Ilsussidiario.net lo ha incontrato al termine dell’incontro dedicato al tema del dialogo. “Il dialogo è possibile” , dice il titolo. Concordano entrambi gli ospiti, Mahamoud e l’on. Souad Sbai, sia pure con sfumature diverse.



Dott. Mahmoud, una delle parole più usate, e forse più abusate, è proprio il termine di integrazione. Cosa vuol dire per lei?

Per me integrazione vuol dire innanzitutto rispettare le leggi che un paese si è dato, conservando le proprie convinzioni di credo e religione. Se uno va contro le leggi o fa cose che sono contrarie all’orientamento della società in cui si trova, non è integrato. E poi occorre conoscere la realtà del paese dove si vive, le sue usanze, la sua cultura. Serve un’apertura pregiudiziale positiva. Moltissimi stranieri vivono in Italia ma non sono integrati: anche musulmani, ma anche sudamericani e cinesi. Non sanno nulla del posto in cui si trovano, sono impermeabili all’ambiente. Senza conoscenza reciproca non c’è integrazione.



Lei, Asfa, da quanto tempo è in Italia?

Sono qui da 27 anni. Le dirò di più: proprio oggi, 25 agosto, è il mio “compleanno”. Compio come italiano 27 anni, perché sono in Italia dal 25 agosto 1982. Sono cresciuto in un paese arabo musulmano, la Giordania, fino a 18 anni, poi mi sono trasferito in Italia per motivi di studio. Mi sono laureato in architettura a Milano, poi mi sono sposato e ho avuto figli. Più della metà della mia vita l’ho trascorsa qui.

Che cos’ha significato questo per lei?

Ho imparato moltissime cose della cultura italiana che non ci sono nel mio paese d’origine e per questo mi considero figlio di due culture. Quando torno in Giordania lo vedo e me ne accorgo, soprattutto rispetto ai miei coetanei. Mi sento diverso per pensiero, comportamento. Stare in Italia mi ha cambiato. Questo è inevitabile ma positivo. Mi considero più aperto, cioè riesco ad accogliere quello che mi circonda con più semplicità.



Cosa è cambiato in Italia rispetto ad allora?

Oggi parliamo di problemi, come il dialogo, l’integrazione, la necessità del rispetto reciproco e delle forme di possibile convivenza, che allora semplicemente non si ponevano. Negli anni ’80 gli stranieri erano pochi e gli stessi italiani non percepivano l’immigrazione come un fatto significativo che interessa la cultura e il costume, al massimo solo come un episodio individuale. Ma oggi è più difficile stringere rapporti e fare amicizia. Per un italiano uno straniero arrivato oggi è uguale a uno che sta qui da trent’anni.

A proposito di integrazione, lei ha usato la parola cultura. Che cos’è?

La cultura è una parola molto variegata e complicata. C’entra il pensiero, la vita sociale, i costumi, l’educazione. L’islam come religione non pone un modello di cultura da seguire. Questo è un problema difficile da capire per chi non è musulmano ed è alla radice di tanta confusione. L’islam è fatto di pochi precisi articoli di fede, ma non impone una cultura. Quando si è diffuso nei paesi del Medio oriente, per esempio, l’islam ha rispettato le culture che ha trovato, non le ha ostacolate o combattute. Con la conseguenza che ogni paese musulmano ha oggi la sua diversa cultura. Gli occidentali però molto spesso credono che i musulmani, perché seguaci dell’islam, abbiano una cultura unica, mentre invece c’è una diversità enorme, dalla Giordania al Marocco.

Si parla tanto di dialogo. Il dialogo ha dei limiti?

No. Bisogna sempre tener la porta del dialogo aperta.

Ci sono però fedeli o gruppi musulmani molto meno disponibili al dialogo di altri.

Certo. Al contrario dell’on. Sbai, che dice di non voler dialogare con gruppi radicali non rappresentativi come l’Ucoii, io penso che occorra sempre farlo. E la ragione per me è semplice: il dialogo deve essere sempre aperto perché non ha alternativa, perché se non c’è dialogo c’è scontro. Se riesco a convincere il mio avversario, ben venga, se no non chiudo la porta, ma la lascio aperta.

L’on. Sbai, in conferenza stampa, ha parlato di “scelta italiana”, riferendosi ad un dialogo fecondo di sviluppi per la fede musulmana nell’incontro con la realtà del nostro paese. Lei, come rappresentante della Casa della cultura islamica a Milano, ha qualche modello particolare?

È da poco che i musulmani sono in Italia quindi non c’è un’esperienza da seguire. Ma sono contrario a prendere modelli dai paesi arabi, perché l’islam va contro questa scelta. È noto che all’inizio del mondo arabo musulmano sunnita quattro scuole hanno spiegato il Corano. Una di queste prende il nome da Muhammad al-Shafai, vissuto tra VIII e IX secolo in Egitto. Il suo mi sembra un esempio eloquente: quando al-Shafai si spostò dall’Egitto in Iraq cambio le sue fatwe, cioè le sue spiegazioni dell’islam. L’islam non dà quindi uno stampo da seguire.

Dunque non c’è un islam da importare in Italia.

Noi vogliamo creare un islam italiano. Ecco perché diciamo di non voler prendere, per esempio, il modello saudita e portarlo qui: non sarebbe conforme all’islam. Là dove l’islam incontra una cultura, elabora un suo esperimento originale.

I vostri avversari dicono che l’islam disorienta i suoi interlocutori perché nel Corano, che è l’unica autorità, si trovano una serie di insegnamenti contraddittori tali da legittimare posizioni diverse se non opposte, per esempio quella più pacifica e conciliante e quella più aggressiva fino, in alcuni casi, alla violenza. Cosa risponde?

Su questo i grandi scienziati del mondo musulmano sono tutti d’accordo. Gli estremisti sono persone che staccano dal contesto una frase o un versetto per appoggiare le proprie tesi. Ma se andiamo a studiare i libri antichi all’origine della storia dell’islam non troviamo nulla che legittimi questa posizione. Estremisti e terroristi parlano di Jihad e di invito alla guerra santa, ma nei miei studi islamici è una parola che non ho mai sentito. È facile fare appello ad un versetto del Corano, ma per capire davvero occorre guardare all’intero capitolo in cui un versetto si trova, perché solo così facendo si riesce a dare una spiegazione. Gli estremisti o integralisti sono persone che non hanno studiato: questo è il vero problema.

“La conoscenza è sempre un avvenimento”. Come interroga il titolo del Meeting la sua sensibilità personale?

Che la conoscenza è un avvenimento l’ho capito oggi. Venire qui mi ha fatto capire di più cosa vuol dire conoscere, perché mi sono trovato di fronte ad una cosa completamente inaspettata, che non immaginavo. Ho incontrato persone e visto cose sorprendenti: gli incontri, i dibattiti, l’organizzazione, i volontari. Non so dare a tutto questo, allo stesso Meeting, altro nome se non avvenimento.