La conoscenza, intesa come avvenimento, in russo acquista un significato molto particolare. La parola “avvenimento” (sobytie) in russo significa “essere-con” (so-bytie), cioè un essere, una realtà condivisa con altri, vissuta in comune, una compartecipazione a una realtà diversa da sé. E la conoscenza come avvenimento ricorda il suo antichissimo significato, fissato nell’Antico Testamento, dove la conoscenza viene intesa come coito, unione carnale, termini che stanno ad indicare un essere congiunto, in un’unità senza confusione e senza divisione. La conoscenza autentica è possibile solo in questa compartecipazione a ciò che si conosce.
Esistono due modi di conoscere, o meglio due modi di percepire il mondo. Possiamo indicarli rispettivamente come metodo “da soggetto a oggetto” e “da soggetto a soggetto”. Il primo metodo, da soggetto a oggetto, presuppone che l’oggetto (secondo l’etimologia, “ciò che ci sta davanti”) da conoscere, non abbia possibilità di interloquire. Ponendoci come soggetto, e intendendo la realtà come oggetto di conoscenza, noi riconosciamo valido qualsiasi metodo di conoscere l’oggetto, a eccezione di uno – la domanda. Noi sappiamo esattamente che l’oggetto non è in grado di comunicarci nulla di ciò che ci interessa realmente. È il cosiddetto metodo positivista. Ovvero di conoscenza oggettiva.
Ciò che l’oggetto da noi indagato conosce di sé, ai nostri occhi non è interessante. Se siamo medici positivisti, ci interessano di più le analisi del malato, che non le sue risposte su come si sente. Se siamo etnografi positivisti, la prima cosa che facciamo è mettere in dubbio tutte le spiegazioni che i popoli da noi studiati danno dei propri costumi.
C’è una famosa poesia russa[1] che descrive questo metodo di approccio al mondo circostante. Vi si narra di Ivanuška, che andò in campagna e scoccò a caso una freccia, poi si mise a cercarla e dopo aver attraversato tre mari trovò la principessa ranocchia con la sua freccia in bocca. Avvolse la ranocchia in un fazzoletto e se la portò a casa la distese sulla tavola del laboratorio, la sezionò e mise in funzione la corrente elettrica. La principessa morì fra lunghi tormenti, in ogni sua venuzza vibravano interi secoli e mondi, mentre sul cupo volto di Ivan lo sciocco aleggiava il sorriso della conoscenza. Ora sapeva con esattezza come si contrae il muscolo della coscia…
Qui viene descritto appunto l’orrore di una conoscenza senza partecipazione. Di una conoscenza che non sia divenuta avvenimento, cioè “essere-con”. Di una conoscenza che non diventi forma di com-passione, di consonanza e compartecipazione al sentire altrui. Qui è descritto l’orrore della conoscenza di cui è pieno il nostro mondo. Il mondo come noi lo conosciamo. Il mondo a cui usiamo violenza. Il mondo circostante che non interloquisce con noi. Il mondo a cui abbiamo negato il diritto di parlare.
La ranocchia che ha raccolto la freccia dell’eroe, gli dà in questo modo il segno che essa gli è destinata in sorte. Che è disposta a venirgli in aiuto, a collaborare, cooperare con lui. Che è disposta a insegnargli tutto ciò che sa – la magia secolare cui le cose del mondo sottostanno, ma che l’uomo ha dimenticato e perduto. L’uomo ha perduto anche il linguaggio in cui essa gli si rivolge: il linguaggio dei simboli, un linguaggio antichissimo col quale l’uomo comunicava con il mondo.
Egli non vede la principessa che sta parlando con lui – vede soltanto una ranocchia capitatagli sottomano. Che ha abboccato alla freccia come se fosse un amo. Essa pensava che la freccia fosse una parola rivoltale. In realtà, si è rivelata semplicemente una trappola. Perché l’uomo ha dimenticato il significato della freccia, e più in generale, che essa può avere un significato. Adesso è semplicemente un mezzo per catturare le rane. E con le rane poi si discorre a colpi di bisturi.
È così che noi trattiamo il mondo, e quando poi esso trema per effetto della corrente che gli abbiamo immesso, la chiamiamo calamità naturale. Così trattiamo anche la parola, negando che abbia un significato, un senso autonomo, assegnandole unicamente il significato che noi le attribuiamo, e quando le parole cominciano a degradare precipitosamente sulle nostre labbra – e soprattutto sulle labbra dei nostri figli – la chiamiamo crisi umanistica, catastrofe linguistica. Molto comodo, perché nessuno può avere colpa di una calamità naturale o di una catastrofe.
All’inizio, per noi hanno cessato di essere parole le cose del mondo. Poi hanno cessato di essere parole anche le parole, che adesso «non significano niente, finché non ci saremo messi d’accordo sul significato». Le abbiamo spogliate della loro soggettività, abbiamo lasciato loro soltanto l’oggettività, la possibilità di essere oggetto della nostra manipolazione, ma non soggetto di comunicazione con esse. La cosa più tremenda è che questo poteva succedere solo in una cultura di origine cristiana.
Quando l’uomo ha voltato le spalle a Dio, ha voluto nascondersi da Lui in paradiso, il Signore ha esaudito il desiderio dell’uomo dandogli, come un Padre generoso, la sua parte di eredità – la terra, il mondo, dove questi potesse vivere come voleva, senza di Lui. Ma Dio non ha creato nulla di morto: era tutto vivo, e molte cose erano più potenti dell’uomo, allontanatosi dal suo Creatore e dimentico della sua autentica vocazione.
L’uomo udiva le voci delle cose e prestava loro ascolto. Viveva in un mondo tutto animato, in un mondo dove tutto ciò in cui si imbatteva era un soggetto ovvero il manifestarsi di un soggetto. Se non ogni filo d’erba era una creatura a se stante, si trattava pur sempre del manifestarsi di un’essenza unitaria – viva e possente – per quanto fragile e debole fosse il singolo filo d’erba.
E il pensiero dell’uomo si volgeva a colloquiare con quest’essenza, perché la conoscenza si rendeva possibile solo ascoltandola. E il contatto con quest’essenza assicurava all’uomo l’influsso su tutti i suoi fenomeni, le sue manifestazioni. L’uomo viveva in un mondo magico, dove la parola giusta era una chiave per accedere a qualunque processo del reale. Gli uomini che non appartengono alla cultura cristiana continuano a vivere in un mondo di questo tipo. Naturalmente, a patto che non vengano corrotti dall’uomo della cultura post-cristiana.
Quando, nel mondo decaduto e sempre più scomposto nelle sue componenti, è venuto il Signore, per infondere nuovamente al mondo vita e forza, le parole disperse delle cose, penetrate da Dio, si sono nuovamente raccolte in discorso, si è ricostituita la sintassi del creato – e il suo sistema circolatorio e nervoso unitario; le parole hanno cessato di costituire una chiave magica di accesso alle cose, perché la realtà stessa è divenuta parola, nella Parola di Dio rivolta in perpetuo a noi. Il mondo e l’uomo hanno conosciuto Dio, come descrive san Simeone il nuovo Teologo (949-1022): «Infatti ciò che è unitario, pur divenendo una molteplicità, resta unitario e indivisibile, ma in ogni sua parte c’è tutto Cristo. […] Io L’ho visto nella mia casa. Egli è apparso inaspettatamente fra tutte queste cose di ogni giorno e si è unito e fuso inesprimibilmente con me ed è entrato in me, come se fra noi non vi fosse nulla, come il fuoco nel ferro e la luce nel vetro. E mi ha reso simile al fuoco e alla luce. E io sono divenuto colui che prima avevo visto e contemplato da lontano. Non so come comunicarvi questo miracolo… Sono uomo per natura e Dio per misericordia del Signore»[2] .
L’uomo ha conosciuto Dio nella Sua comunione con sé e con l’aiuto di Dio è entrato in comunione con tutto il mondo. San Silvano del Monte Athos diceva che tutto il mondo e ogni cosa nel mondo si rivela a chi ha conosciuto Cristo. E si svela come suo proprio. Tutto il mondo diventa un prolungamento dell’uomo, perché tutto il mondo è permeato di Cristo, che entra nell’uomo reso compartecipe di Lui. Ecco il senso ontologico della preghiera monastica per il mondo, ed ecco il motivo della sua efficacia: l’uomo che è in comunione con Cristo può compiere nei confronti del mondo le stesse azioni che compie sulle membra del proprio corpo. Fino a quando resta in comunione con Cristo, naturalmente. Da un lato, egli percepisce come proprio il dolore del mondo. Ma anche la gioia del mondo diventa la sua stessa gioia.
Allorché il volto di Dio si è nascosto alla vista dell’uomo illuminista le cose hanno cessato di essere parole di Dio, ma – agli occhi dell’uomo moderno positivista – sono rimaste cose morte, inanimate, senza le parole e le voci loro proprie e peculiari, che possedevano in passato. Le principesse sono scomparse, non sono rimaste che ranocchie, e l’intero XIX secolo si è dato da fare per sgozzarle con entusiasmo su scala industriale. C’è da meravigliarsi che il XX secolo si sia messo a sgozzare su scala industriale anche gli uomini?
L’uomo, infatti, non può trattare l’uomo diversamente da come tratta il mondo. E non è neppure in grado di trattare se stesso diversamente da come tratta il mondo. La percezione del mondo da soggetto a oggetto è estremamente instabile. Se considera il mondo come un oggetto, l’uomo comincia rapidamente a considerare anche se stesso come un oggetto. Lo si vede benissimo, ad esempio, guardando come cambiano i sogni dell’umanità. Se si pensa come un soggetto, l’uomo sogna di poter fare qualcosa. Se invece si considera un oggetto, l’uomo comincia a sognare di trovarsi sotto i riflettori, sogna di essere guardato e ammirato da tutti. Non importa per qual motivo. Ora, infatti, egli non carezza dei sogni su di sé come protagonista in azione, ma come oggetto della percezione altrui. Cioè, come oggetto.
Il metodo conoscitivo da soggetto a soggetto si differenzia dal precedente innanzitutto perché avendo a che fare con un soggetto dotato di voce, chi conosce non può avvicinarsi ad esso con un passepartout universale, con un metodo conoscitivo sempre identico, adeguato a tutti gli oggetti che si trovino nel raggio di azione dell’unico soggetto, rappresentato da colui che indaga. Il soggetto da conoscere detta lui stesso il metodo della propria conoscenza. Al soggetto che conosce non resta che ascoltare e seguire. Tendere l’orecchio. Perché solo così si può “essere-con”, cioè entrare in comunione con ciò che si conosce. Solo ciò che viene conosciuto può indicare la strada verso la propria essenza, nelle sue recondite profondità.
Questa conoscenza è sempre un rischio.
Nel caso del metodo conoscitivo da soggetto a oggetto, noi non mettiamo piede in territorio straniero, ma lo conquistiamo (ecco perché il bisturi è il simbolo di questa conoscenza). Vale a dire, il territorio su cui ci troviamo è sempre nostro. Per questo, tra l’altro, abbiamo sempre e soltanto a che fare con l’esterno dell’oggetto indagato, con i suoi confini. Per quanto affondiamo il nostro bisturi, incontriamo solo e sempre nuovi esterni, nuovi involucri. L’oggetto non ha un territorio interno, ma solo dei confini e delle reazioni alla sollecitazione che lo raggiungono dall’esterno. L’oggetto è come una testa di cipolla (neanche come un cavolo, che almeno ha il torsolo). L’oggetto, opponendo resistenza, ci offre sempre nuovi involucri. E ci fa lacrimare gli occhi, e noi riteniamo che questa sia la proprietà principale dell’oggetto indagato.
Nel caso del metodo conoscitivo da soggetto a soggetto ci troviamo subito, fin dall’inizio, su territorio straniero. E per non starci inutilmente, in posizione difensiva (cioè sia pur sull’ultimo lembo, ma di proprio territorio), dobbiamo rinunciare a difenderci. Dobbiamo aprirci a ciò che ci si manifesta. Dobbiamo lasciarci andare, e non invece attaccare e conquistare.
Nel caso del metodo di conoscenza da soggetto a soggetto abbiamo a che fare con qualcuno che ci parla. Si tratti del mondo o dell’uomo, è sempre un testo. E il metodo di lettura di un testo deve essere ricavato di volta in volta dal testo stesso, altrimenti non impareremo mai a capire (cioè a prendere, accogliere), e penseremo sempre che ci venga detto esattamente quello che ci aspettavamo. Otterremo solo quello che abbiamo già. Continueremo a restare sul nostro territorio.
Per cominciare a capire è sufficiente ammettere che ci possa venir detto qualcosa che ancora non sappiamo, e che ci venga comunicato in un modo che non ci aspettiamo. In altri termini, è sufficiente porre chi ci parla al di sopra di noi. In inglese “capire” si dice understand, cioè “sotto-stare”: solo in questa posizione è possibile capire.
C’è la famosa fiaba della bimba Maša e delle oche selvatiche che le avevano portato via il fratellino Ivanuška. La bambina si mette a inseguirle, ma non sa la strada, così chiede informazioni al melo, poi alla stufa e poi al ruscello. E ciascuno di essi le risponde in maniera strana: mangia una mia mela (pasticcino, gelatina), e te lo dirò. Ma Maša ricusa, con il pretesto che a casa ne ha di molto meglio. E passa oltre, senza sapere la strada. La irrita questa strana condizione postale per parlarle dalle cose che incontra. Non capisce ancora che non le stanno proponendo una leccornia o una prova, ma l’unico modo possibile per sapere ciò che sa il melo. Lei resta attaccata alle cose abituali, di casa sua, che le piacciono, non sa che farsene delle mele selvatiche! Non entra nell’avvenimento, cioè in comunione, in un “essere-con”, ma resta sul suo territorio.
Ma quando Maša cercherà di sfuggire, insieme al fratellino che è riuscita a trovare, alle oche selvatiche che la rincorrono, quando l’unica sua salvezza sarà che queste non la scorgano, e cioè che lei non sia più lei, del tutto lei, non si opporrà alla richiesta del melo: mangia una mia mela, e ti nascondo. Perché l’unico modo che ha il melo per metterla in salvo – cioè per cambiare, rendere chi chiede simile a sé – è esattamente parteciparsi a lei, interiormente, entrare spiritualmente nel suo territorio.
La conoscenza ci cambia, già solo per il fatto che ci apre, e questo è un avvenimento. Ma questo avvenimento si raggiunge in un modo soltanto – attraverso un “essere-con”, una condivisione con ciò che conosciamo. Nella comunione con ciò che viene conosciuto. Il conquistatore è un uomo senza avvenimenti nella vita. Uno che resta sempre sul suo territorio, su un terreno bruciato.
[1]Jurij Kuznekov, Atomnaja Skazka (Favola Atomica)
[2]Cfr. St. Symeon, in The soul Afire (New York: Pantheon Books, 1944), p. 303.