L’argomento di questo incontro, come il titolo del meeting di Rimini di quest’anno, sfida le convinzioni diffuse nei circoli intellettuali contemporanei. Nel mondo accademico odierno, è alquanto insolito sentir parlare qualcuno senza ironia di “conoscenza” o “legge naturale”. Celeberrimi filosofi si sono costruiti delle carriere negando la possibilità di conoscere qualunque cosa con certezza, e il concetto di legge naturale è ampiamente deriso come insignificante.
Anche nell’ambito dei diritti umani – argomento centrale per i partecipanti a questo dibattito – i principi fondamenti sono fortemente contestati. La distruzione intenzionale della vita umana nascente, ad esempio, è considerata dalla maggior parte del mondo una grave violazione dei diritti umani, eppure le più grandi organizzazioni per i diritti umani appoggiano con vigore l’aborto come diritto umano. Come è possibile che la stessa esperienza elementare appaia così diversa a così tanta gente?
Il poeta danese e scrittore di fiabe Hans Christian Andersen ha cercato di spiegare il problema dell’errore sistematico nella percezione e nel ragionamento attraverso un mito all’inizio di una delle sue fiabe più famose: La Regina delle Nevi. In questa ci racconta che tanto tempo fa esisteva un demone molto cattivo e intelligente, così intelligente che in realtà era il capo di una scuola per demoni. Questo demone aveva inventato uno specchio che aveva la facoltà di far apparire insignificanti tutte le cose belle e buone; quello che invece era brutto e che appariva orribile, risaltava ancora di più.
Era così contento della sua invenzione che lui e i suoi allievi corsero intorno al mondo con lo specchio, e raccontavano in giro che era successo un prodigio: adesso finalmente si poteva vedere come erano veramente il mondo e gli uomini. Poi ebbero l’idea che sarebbe stato più divertente portare lo specchio fino in paradiso per vedere quali guai avrebbe causato lassù. Più volavano in alto con lo specchio, più questo diventava pesante, finché sfuggì loro di mano e precipitò verso la terra, dove si ruppe in centinaia di milioni di pezzettini. E così fece molto più danno di prima, perché alcuni pezzi entravano negli occhi della gente e vi rimanevano, così la gente vedeva tutto storto, oppure vedeva solo il lato peggiore delle cose. Alcune schegge caddero addirittura nel cuore di qualcuno, e il cuore divenne come un pezzo di ghiaccio.
Nel caso del bambino protagonista della fiaba di Andersen, ci volle molto tempo prima che riuscisse a liberarsi dei granelli nell’occhio e nel cuore, e dovette superare molte difficoltà. E così è per ciascuno di noi nella nostra ricerca di una conoscenza fidata. Cosa possiamo fare con tutte le distorsioni e i punti ciechi che ci entrano negli occhi, distorcendo le nostre percezioni, pregiudicando i nostri giudizi e rendendo così difficile parlare con fiducia di cose come la verità o la legge naturale? Come possiamo crescere nella conoscenza, tenendo presente le parole di San Paolo ai Corinzi che la nostra ricerca non sarà mai completamente riuscita, perché “ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa”?
Per quanto riguarda il mio contributo al dibattito di oggi, desidero offrire alcune riflessioni su tale problema alla luce del lavoro del filosofo Bernard Lonergan sulla comprensione dell’essere umano che, a mio parere, si inserisce perfettamente nel fine dichiarato di questo Meeting di “riporre al centro del dibattito la dinamica attraverso cui l’uomo conosce il reale.”
“La conoscenza è sempre un avvenimento”
Giussani descrive la conoscenza come un “avvenimento” – un “incontro tra un’energia umana e una presenza” in cui “l’energia della conoscenza umana è assimilata all’oggetto.” Lonergan, che dedicò gran parte della sua vita allo studio del comprendere umano, situa tali “avvenimenti” entro la struttura dinamica della cognizione umana: i processi ricorrenti e cumulativi dello sperimentare, capire e giudicare. Quelle operazioni mentali ricorrenti sono identiche sia che il conoscitore sia uno scienziato genio o un infante che sta imparando a camminare e a parlare. Tutti noi, nella nostra vita quotidiana, partecipiamo ai dati di senso e di esperienza elementare. Ci interroghiamo, ci poniamo domande, cerchiamo di capire e alla fine diamo giudizi e prendiamo decisioni. E poiché la struttura del sapere umano è la stessa per chiunque nel mondo – Oriente e Occidente, Nord e Sud, nazioni sviluppate e in via di sviluppo – è uno degli elementi cardini del fondamento di qualunque teoria sulla legge naturale.
Orbene, una cosa particolarmente interessante di questi processi ricorrenti è che generano regolarmente momenti “aha”, “avvenimenti” che irrompono e alterano il nostro modo di pensare e di essere. Conosciamo tutti la storia di Archimede che mentre si lavava in una vasca dopo essersi inutilmente scervellato per escogitare un metodo per misurare la proporzione dell’oro in una corona realizzata per il Re. Qui, secondo la leggenda, gli era capitato di accorgersi che le sue membra, immerse nell’acqua, perdevano una consistente porzione del peso reale diventando più leggere; e nudo per come era in quel momento si sarebbe dato a correre per le pubbliche vie gridando ripetutamente quell’”Eureka” che riecheggiò nel corso dei secoli.
Un interessante filo comune in numerosi racconti di prima mano di scoperte innovative in campo scientifico e matematico è l’incapacità manifesta dello scopritore di spiegare la scoperta in questione. Spesso dicono di essere pervenuti alla risposta all’improvviso, piuttosto che come risultato di un processo logico, sistematico di induzione o deduzione. Molte di queste storie sono raccolte nel libro di Arthur Koestler, L’atto della creazione.
Un racconto tipico è la descrizione del matematico Karl Friedrich Gauss di come è giunto alla soluzione di un problema matematico che aveva resistito a quattro anni di studi: “Finalmente,” scrisse, “ce l’ho fatta, non grazie a uno sforzo faticoso, ma, per così dire, per grazia di dio. Come un lampo di luce improvviso, l’enigma è stato risolto….Quanto a me, non sono in grado di definire la natura del filo conduttore fra ciò che conoscevo in precedenza e ciò che ha reso possibile il mio successo.” Il racconto di James Watson della scoperta sua e di Francis Crick della struttura a doppia elica del DNA è attribuita a una simile intellezione improvvisa.
Non si potrebbe mai conoscere la reale sequenza delle operazioni mentali di questi sviluppi scientifici dal modo in cui sono presentati nei libri di testo. In tali documenti, la scoperta viene presentata solitamente come il risultato di una serie di fasi logiche, mentre in realtà spesso veniva prima l’intellezione, mentre la dimostrazione che la convalidava era elaborata a posteriori. Talvolta la dimostrazione è giunta molti anni dopo, ed è stata trovata da una persona diversa rispetto a quella che intuitivamente era giunta alla soluzione, come nel caso dell’ultimo teorema di Fermat.
Un altro elemento comune di queste storie è che le intellezioni innovative tendono a prodursi solo dopo uno sforzo intenso e laborioso. In altre parole, non possono essere generate su richiesta, ma le persone possono determinare delle condizioni che ne aumentano la possibilità di realizzarsi. Come disse Louis Pasteur : “La fortuna favorisce la mente preparata.” E come osservò Lonergan : “Anche in presenza di talento, alla conoscenza si perviene lentamente, se non faticosamente. Segnare una svolta… richiede anni di vita più o meno costantemente consacrati allo sforzo di capire, in cui la propria capacità di comprensione gradualmente elabora una spirale di punti di vista….” (n.d.t. Libera interpretazione del traduttore)
Fortunatamente per quanti di noi che non sono grandi geni, le intellezioni, grandi e piccole, avvengono in ogni momento nella mente di ciascuno, ogni giorno, nel corso delle nostre ordinarie operazioni mentali. Ma come tutti sappiamo, non ogni idea brillante che ci viene in mente sotto la doccia merita di essere proclamata al mondo intero. Alcune idee sono insignificanti. Quindi riflettiamo sulle nostre intellezioni, le selezioniamo, mettiamo in ordine le prove, la esaminiamo a fondo; testiamo la nuova idea rispetto a ciò che conosciamo e a ciò che altri hanno scoperto; ne investighiamo i presupposti e le implicazioni; lasciamo che scaturiscano ulteriori domande; ed infine decidiamo se accettarla o contestarla.
Queste scoperte, assieme alle esperienze e alle operazioni che ne preparano il terreno, e i procedimenti logici che ci consentono di convalidarle e di consolidarle, sono ciò che permette alla conoscenza umana di progredire. Giussani narra dell’esperienza di un grande matematico Francesco Severi, il quale si avvicinò alla fede quando, più approfondiva le sue ricerche, più traguardi perseguiva, più si accorgeva che il particolare orizzonte che raggiungeva ne prevedeva un altro, portandolo a vedere ogni vittoria come temporanea, incitandolo a trovare un’altra “x” oltre le condizioni in cui operava. Severi giunse a credere che tutto ciò che scopriva, mentre procedeva passo dopo passo nella sua ricerca, era una funzione di un infinito – un noto-ignoto, come la x in algebra. Arrivò a capire che l’orizzonte è solamente il limite della nostra vista.
Questo tipo di esperienze sembrano essere molto presenti nei pensieri di Papa Benedetto, che conclude la sua recente enciclica, Caritas in Veritate, con alcune osservazioni importanti sul carattere misterioso della conoscenza. “Tutti gli uomini,” afferma, “sperimentano i tanti aspetti immateriali e spirituali della loro vita.” Spiega:
Conoscere non è un atto solo materiale, perché il conosciuto nasconde sempre qualcosa che va al di là del dato empirico. Ogni nostra conoscenza, anche la più semplice, è sempre un piccolo prodigio, perché non si spiega mai completamente con gli strumenti materiali che adoperiamo. In ogni verità c’è più di quanto noi stessi ci saremmo aspettati, nell’amore che riceviamo c’è sempre qualcosa che ci sorprende. Non dovremmo mai cessare di stupirci davanti a questi prodigi. In ogni conoscenza e in ogni atto d’amore l’anima dell’uomo sperimenta un « di più » che assomiglia molto a un dono ricevuto, ad un’altezza a cui ci sentiamo elevati (77).
Vedendo “come in uno specchio, in maniera confusa”: Il problema della distorsione
Come l’apostolo Paolo ricordava ai Corinzi, la nostra conoscenza è imperfetta. Tutti noi siamo soggetti ad punti ciechi e a distorsioni che, come le schegge dello specchio del demone, possono distorcere non solo i nostri processi di pensiero, ma anche le nostre stesse percezioni della realtà. A dire il vero, possiamo superare questi problemi fino ad un certo punto, ma nelle scienze umane – ancor più che nelle scienze naturali – i nostri sforzi di progredire nella comprensione sono cosparsi di difficoltà. Tanto che, come ci dice Aristotele, nel regno degli affari umani ci troviamo a che fare con premesse che sono solo “per la maggior parte vere,” e a giungere a conclusioni “che non sono migliori.…”
Le distorsioni cognitive possono derivare da molte fonti. Esiste il tipo di distorsioni che derivano dalla propria psicologia individuale, le distorsioni che assimiliamo dalle nostre famiglie e da altri gruppi a cui apparteniamo, e le distorsioni culturali generali di cui sono permeate le nostre società. Come afferma Lonergan: “Il seme della curiosità intellettuale deve diventare un ruvido tronco per reggere contro i desideri e i timori, i conati e gli appetiti, gli impulsi e gli interessi che albergano nel cuore dell’uomo.”
La lotta per superare questi ostacoli è il lavoro di una vita. Il filosofo Papa Giovanni Paolo II ci ha ammonito che lungo il cammino è necessario prestare attenzione “ad ogni frammento di verità” che la fede e la ragione di ciascuno ha portato ad acquisire “nell’esperienza di vita e nella cultura dei singoli e delle nazioni.” Dobbiamo affermare tutto questo nel dialogo con gli altri e verificare il nostro retaggio di valori a livello esistenziale, testandoli nelle nostre stesse vite e lottando “per distinguere gli elementi validi nella tradizione da quelli falsi ed erronei, o da forme obsolete che possono utilmente essere sostituite da altre più consone ai tempi.”
La cattiva notizia sembra essere il fatto che non esistono scorciatoie. Ma la buona notizia è che, nel tempo, i processi ricorrenti, cumulativi e potenzialmente auto correttori dello sperimentare, porsi domande, capire, valutare criticamente, giudicare e scegliere possono aiutarci a superare alcuni dei nostri errori e distorsioni, gli errori e le distorsioni della nostra cultura, e gli errori e le distorsioni racchiusi nei dati che abbiamo ricevuto da coloro che se ne sono andati prima di noi. Nessuno ha mai dato una risposta migliore a quella di Clifford Geertz ai pensatori che deridono la possibilità di obiettività nella ricerca della conoscenza. Il fatto che non si possa mai avere una sala operatoria perfettamente sterile, ha detto, “non significa che è necessario operare un intervento chirurgico in una segheria.” E, dopo tutto, per giungere ad una conclusione che sia “per la maggior parte vera” non è un risultato di poco conto. Nel regno degli affari umani, è un ideale per il quale vale la pena di lottare, e un incoraggiamento a portare a termine quel che si è cominciato.
Ora vengo all’affermazione di Giussani secondo cui la “conoscenza” può essere un “avvenimento” che cambia la vita. Man mano che accumuliamo intellezioni e definiamo modelli che ci permettono integrazioni superiori, il nostro orizzonte si sposta. Quando passiamo ad un punto di vista superiore, ci rendiamo conto di dover rivedere in qualche modo le nostre conoscenze, di una certa trasformazione delle nostre stesse personalità. Parti del passato assumono un nuovo rapporto tra loro, i sentimenti cambiano; le porte si aprono nella mente e nel cuore. Qualche volta il cambiamento è così grande che quando cerchiamo di esprimere ciò che è successo, usiamo parole come conversione e redenzione.
Talvolta, questo tipo di cambiamento può trasformare un intero ambito dell’attività umana o persino un’intera cultura. Nella letteratura, come ha sottolineato T.S. Eliot, un poeta filosofico molto ammirato da Giussani, una nuova opera significativa può di fatto trasformare quello che c’è stato prima. Quando viene creata una nuova grande opera, afferma, accade qualcosa all’intera tradizione da cui scaturisce -“i rapporti, le proporzioni, i valori di ogni opera d’arte trovano un nuovo equilibrio” – tanto che, in questo senso, il passato è modificato dal presente quanto il presente è condizionato dal passato. Pertanto, non leggiamo Virgilio allo stesso modo di Dante; o Dante allo stesso modo dopo Eliot; o le Scritture ebraiche, dopo gli Scritti apostolici.
Esperienza elementare e diritto naturale
Ora potrà sembrarvi che io abbia divagato un po’ dalla parte giuridica dell’argomento di questo gruppo di esperti. Ma ecco come io vedo il collegamento: lo sviluppo di norme giuridiche a partire da norme consuetudinarie nel corso della storia rappresenta un modello operativo particolarmente interessante di acquisire conoscenza come iniziativa di un gruppo. Quando sono praticati da una comunità di conoscitori, i processi potenzialmente auto correttori dello sperimentare, del comprendere e del giudicare possono contribuire in misura importante a portare alla luce le parti difettose di una tradizione oltre che a ingenerare un ulteriore sviluppo delle parti sane. Questo è quello che volevano dire gli studiosi di diritto del Rinascimento quando chiamavano il diritto romano riscoperto ratio scripta, ragione scritta. E questo è quanto intendeva Lord Edward Coke quando disse una cosa che restò famosa: “La ragione è la vita del diritto, e il common law in sé non è nient’altro che ragione .” Quando parlava di “ragione,” Coke lo specificò, faceva riferimento a un processo collaborativo che chiamò “ragione collegiale”, la “perfezione artificiale della ragione, frutto di lunghi periodi di studio, osservazione ed esperienza,…fatta e rifinita nei secoli da generazioni di uomini serie e eruditi….” Nelle memorabili parole di Coke, il common law era “l’orgoglio dell’intelletto umano, che con tutti i suoi difetti, le sue ridondanze e i suoi errori, è una raccolta della ragione di tutte le epoche, e che unisce i principi della giustizia originaria all’infinita varietà degli interessi umani.”
Una tradizione giuridica costituita in questo modo promuove il bene comune richiedendo che avvocati e giudici si sforzino di superare i propri personali pregiudizi, forniscano buone giustificazioni in relazione alle conclusioni che traggono, adducano fatti a loro sostegno, e affrontino in modo convincente le contro-argomentazioni. Questo è il motivo per cui la tradizione giuridica occidentale, nei suoi momenti migliori, è stata una potente forza nella costante battaglia condotta dall’umanità per un governo delle leggi anziché un governo degli uomini. Nei suoi migliori momenti ha dimostrato una impressionante capacità di tenere a bada potere e pregiudizio. E nei suoi migliori momenti, ha provato che gli esseri umani sono in grado di ordinare le proprie vite assieme con “riflessione e scelta”, anziché lasciarli semplicemente soggetti al “caso e alla forza” (Federalist No. 1).
Nel corso del secolo scorso, tuttavia, l’esercizio delle tradizioni giuridiche delle nazioni occidentali è stato indebolito da una diffusa accettazione degli attacchi alla ragione che iniziarono ad essere sferrati alla fine del 1900 in Inghilterra, Francia, Germania, Scandinavia, e negli Stati Uniti. Negli Stati Uniti, ad esempio, è stata una vera disgrazia che il resoconto meglio noto di quello che fanno gli avvocati e di quello che dovrebbero fare, ci sia stato dato da un uomo che ha dichiarato guerra totale alla ragione nel diritto.
Nell’articolo di analisi giuridica citato più di frequente mai pubblicato in Inghilterra, Oliver Wendell Holmes Jr, ha attaccato il processo a cui la tradizione giuridica occidentale deve il proprio dinamismo e la propria capacità di auto-correzione. A proposito dell’affermazione di Lord Coke secondo cui “La ragione è la vita del diritto,” Holmes scrisse: “Troverete alcuni redattori di testi che vi dicono che il diritto è un sistema della ragione.” Rigettando questa affermazione come un’assurdità, Holmes disse che il diritto non è nulla di più né di meno di un “comando,” espresso nelle decisioni dei tribunali e nelle leggi e sostenuto dal potere armato dello Stato. L’obiettivo dei vostri studi, ha detto agli studenti di giurisprudenza, non è nulla di più della predizione di “dove cadrà l’accetta.” Se volete conoscere il diritto, “dovete guardarlo come fa un uomo cattivo” – mi dice che devo fare questo o astenermi da fare quello altrimenti “useranno le maniere forti su di me.” Consigliava ai lettori di utilizzare “acido cinico” per lavare via tutte le incrostazioni moralizzanti sul diritto. Holmes, quindi, come il demonio con il suo magico specchio, disse, “Vedrete il diritto così come è veramente”: “un amalgama di potere, opportunismo, preferenza e opinioni, “dichiarato o inconscio.”
Holmes ha anche scritto un articolo dal titolo “Diritto Naturale,” in cui ha deriso l’idea stessa di norme universali basate sulla ragione e sull’esperienza. Negando che la moralità abbia alcuna base diversa dalla preferenza, ha asserito che, “Le credenze di una persona sono buone quanto quelle del suo simile,” aggiungendo, “Ciò non vuol dire che non siamo disposti a combattere e morire per quello in cui crediamo. Un cane combatte per il suo osso.” (Sono lieto di segnalare che il mio collega partecipante al dibattito, Robert George, ha brillantemente demolito tale tesi in un memorabile convegno ad Harvard nel 2008.)
Holmes e i suoi omologhi europei hanno preparato la strada per il carnevale della teoria giuridica del ventesimo secolo screditando lo stesso retaggio di cui essi stessi si erano nutriti. In nome del realismo, hanno demolito ideali, dimenticando quello che gli antichi sapevano: che gli ideali sono altrettanto reali quanto la terra e l’acqua. Nel nome del pragmatismo, hanno abbassato gli standard della condotta umana, dimenticando che gli esseri umani solitamente producono maggiormente quando sono incoraggiati ad alzare anziché ad abbassare gli occhi. In nome della razionalità, hanno ridotto la ragione a un calcolo egoistico o a mera razionalizzazione. Ciò facendo, hanno privato i propri successori del proprio legittimo retaggio, e hanno ridotto le possibilità che i futuri giuristi siano in grado di dimostrarsi all’altezza delle nuove sfide che si profilano all’orizzonte.
Che cosa fare quindi? La tradizione cristiana, a cui molti di noi appartengono, non ci consente di ritirarci dal mondo né di arrenderci alla disperazione. Ci insegna che la ragione, per essere liberata dalle distorsioni, deve essere purificata – e che la purificazione della ragione coinvolge non solo la testa ma anche il cuore. L’autentica crescita dell’uomo, dice Papa Benedetto nel passaggio preso da Caritas in Veritate che ho citato in precedenza, “richiede nuovi occhi e un nuovo cuore.” Ma come si possono avere nuovi occhi o un nuovo cuore?
Un fatto appare chiaro – nessuno può farlo da solo. Questo pare essere il messaggio della fiaba di Hans Christian Andersen, La Regina delle Nevi. Nel caso vi siate chiesti come il ragazzino nella fiaba sia riuscito a estrarre le schegge dal proprio occhio e dal proprio cuore, ecco che cosa è successo. Il piccolo Kai ha abbandonato casa e famiglia per seguire una bella donna vestita di bianco fino al suo regno di ghiaccio nel lontano nord. Qui rimase intrappolato per anni. Kai fu tuttavia sufficientemente fortunato da avere un vero amico, una ragazzina di nome Gerda, che non smise mai di cercarlo, e una nonna che non smise mai di pregare per lui. Dopo essere passato attraverso così tanti pericoli, Gerda finalmente trovò Kai nel palazzo della Regina delle Nevi. Qui, presso un lago ghiacciato chiamato “lo specchio della ragione,” stava infruttuosamente cercando di risolvere un puzzle realizzato con i pezzi di ghiaccio. Quando Kai non riconobbe Gerda, quest’ultima scoppiò a piangere con grosse lacrime che caddero su di lui sciogliendo il blocco di ghiaccio che il suo cuore era diventato. Allora la riconobbe e scoppiò a piangere anche lui e le sue lacrime espulsero la scheggia dal suo occhio. Assieme ritornarono a casa dove trovarono la vecchia nonna seduta al sole che leggeva la Bibbia.
La fiaba – forse la si dovrebbe chiamare parabola – pare dirci qualcosa sulla purificazione della ragione. Sembra altresì illustrare l’affermazione di Giussani secondo cui “l’evento che disturba e altera la dinamiche della umana conoscenza non è solo qualche-cosa ma necessariamente è qualc-uno – è quello che chiamiamo un testimone.”