«Napoli mi stava stretta, volevo cambiare vita. E avevo deciso di conseguenza di dire no alla musica. Poi qualcosa mi ha fatto cambiare idea». Alfredo Minucci lo dice davanti a una pizza, ovviamente. È una calda serata napoletana di luglio, di quelle in cui la gente chiacchera ad alta voce mentre passeggia sul lungo mare e le automobili passano con gli stereo ad alto volume con i finestrini abbassati.
Alfredo ha appena terminato il suo nuovo disco: “Cammenanno”. Si sta preparando per il Meeting di Rimini, dove con la sua grande band animerà la festa finale. Musiche e ritmi dal cuore di Napoli, dal Rione Sanità, rifiorito grazie a un gruppo di giovani che non ci stanno a lasciare andare tutto al macero, la vita e le speranze.

L’Alfredo Minucci cantautore, raccontando di se e delle proprie canzoni, parla proprio del suo Rione, di ciò che stava morendo, di ciò che è rinato, delle facce che hanno reso possibile l’imprevisto… «Ero un musicista che stava perdendo la bussola, alcuni anni fa», dice l’Alfredo.
«Non volevo essere un Pulcinella e neppure un neomelodico, ma non sapevo proprio dove andare a parare e per questo stavo addirittura meditando di andarmene dalla città».
Poi è successo qualcosa, un incontro. Merito di Nando e del suo bar. Lui, Nando, amico mio da sempre, vede tutto: gente cha passa, facce tristi, vecchi che invecchiano e giovani già invecchiati. E un giorno incontra questa ragazza che entra a ordinare un caffè e lo saluta in un modo diverso. Dopo qualche giorno – lei entrava quotidianamente a ordinare un caffè e lo faceva sempre in un modo differente e vivace – lui le chiede: «Come mai questo saluto sempre così vivo quando entri nel mio bar?» e lei lo invita a un incontro: era l’ottobre del 2006 e Nando ci va con la moglie e sente Julian Carron parlare di Napoli con una speranza… nuova.

Non sapendo come ringraziare questa ragazza, Nando le regala il mio secondo cd, “Sient’o core”. È cominciato tutto così. L’inizio più classico: l’imprevedibilità. Un amico che dice a un amico e così via…. E dopo cosa è successo? «È accaduto che il cd ha fatto il giro di tante persone, gente che non conoscevo», è la risposta di Alfredo. «Così dopo qualche tempo mi hanno invitato a cantare le mie canzoni al pensionato universitario. Quando me l’hanno proposto io credevo di andare dagli anziani – sai: l’idea dei pensionati per me si associava alle pensioni, ai capelli bianchi… – e invece mi sono trovato a cantare Nanniné davanti a questi giovani napoletani che frequentavano l’università e mi ascoltavano in silenzio. Questa è la prima cosa che mi ha colpito: mi ascoltavano con un silenzio totale, con attenzione, con partecipazione. E allora mi son detto “qui ho trovato qualcosa di nuovo”. Ci sono rimasto. E tutto è stato diverso».

Nella Napoli estiva, ascoltare uno dei più promettenti musicisti napoletani parlare di se in questo modo è uno schiaffo alla distrazione e alla mancanza di speranza. Intorno non ci sono più le montagne di immondizia degli anni scorsi, ma la sensazione di una città che a volte vive “suo malgrado” è ancora viva. Eppure qualcosa cambia, nella musica come nelle persone.
Ma cos’è che innesca la nuova marcia? «Per me il cambiamento è arrivato ascoltando e vedendo certa gente che mi parlava di un Cristo amico».
Il cantautore lo dice con l’espressione sorridente di chi non ha altre parole con cui dirlo. Ma Alfredo: cosa ti ha colpito e catturato? «Mi ha colpito la loro concretezza nella vita, l’assoluta mancanza di astrazione: parlavano di cose autentiche e toccabili. Così attraverso di loro mi sono pure accorto di aver vissuto tanto tempo come un turista nella mia città, come uno spettatore. A un certo punto un incontro mi ha fatto vedere le cose in modo diverso: non ero più solo, qualcuno mi voleva bene e bisognava iniziare da lì per rifare le cose. Poi è stato un turbine, un’accelerazione di tutto, della mia vita, della mia musica. Tanto per fare un esempio: il nuovo disco, “Jamm’ a vede”, è nato in 2 o 3 mesi, canzoni nate con l’urgenza di raccontare cosa mi era successo. L’ho voluto intitolare andiamo a vedere non per caso: è la stessa cosa accaduta a Giovanni e Andrea…».

“Jamm’ a vede” è stato il disco del successo in giro per l’Italia: la prima partecipazione al Meeting, tanti concerti e tante feste popolari in giro per l’Italia. Parliamo un po’ delle radici sonore del cantautore Minucci: Alfredo, cosa c’è nella tua musica? «Ci sono tante tradizioni mediterranee e italiane. A Napoli, negli anni Settanta e Ottanta, c’è stato un periodo ricchissimo di jazz e blues. È stato il tempo di Pino Daniele, di James Sanese, di Tullio De Piscopo. È stato il momento in cui un disco come “Nero a metà” ha fatto scoprire a tutta l’Italia che nella nostra città si poteva fare grande musica. Io sono cresciuto adorando quel disco, ma nonostante questo devo dire che non mi sento figlio del jazz o della musica nero-americana. Io preferisco i nostri ritmi, le nostre melodie. Per questo amo alcuni autori partenopei che sono rimasti vicini, pur con le proprie creatività, alla nostra tradizione, come Nino Bonocore ed Edoardo De Crescenzo. E amo pure l’ultimo Nino D’Angelo, che è magnifico alle prese con la musica etnica».

E il nuovo disco, questo “Cammenanno”, di che pasta è fatto? «È un cd con alcuni brani classici, come Era de maggio, ‘O sole mio e Mandolinata a Napule, e alcuni pezzi nuovi». Forse i brani inediti più significativi sono ‘A casa mia, con quel cantato “la mia casa cosa è, è il mio cuore che batte per te”, una canzone – dice Alfredo – che racconta “il momento in cui nella tua casa entra un vento nuovo e una nuova speranza”». E c’è anche ‘O niente e ‘a libertà, «la canzone che ho scritto l’anno scorso tornando a casa dal Meeting, dopo l’incontro con i carcerati della mostra Vigilando redimere».

E il discorso arriva a Rimini, al Meeting, alla festa finale: «Mi piacerebbe che non fosse solo un concerto, due ore di musica e canzoni per una festa viva. Vorrei che fosse il modo per comunicare cosa è accaduto e sta accadendo qui al Rione Sanità, un luogo dove la gente è rinata, i bambini, le mamme, gli uomini, i giovani e i vecchi: gente nuova che sa di poter costruire mentre fino a poco tempo fa non sapeva nemmeno chi era».
La serata è volata. Tra un cuoppo e una pizza, due passi a Castel dell’Ovo e tanta musica partenopea ascoltata sullo stereo. Un saluto e un abbraccio. Prima di lasciarci, però, un’ultima cosa: cos’è una canzone, Alfredo? «È una cosa del cuore. Un’espressione del cuore». E ci salutiamo. Ovviamente nei pressi del Rione Sanità…

(Walter Gatti)