Da una parte le profonde speranze suscitate in chi ha partecipato a un evento unico, dall’altra la consapevolezza delle difficoltà che continuano a ostacolare un reale cambiamento del Paese in assoluto più popoloso tra quelli che si affacciano sul Mediterraneo. Prima fra tutte, la mancanza di separazione tra religione e politica. E’ lo spaccato del Meeting del Cairo che emerge dalle parole di Tarek Ibrahim Farag, cattolico e residente ad Alessandria d’Egitto, intervenuto venerdì mattina all’Opera Hall come relatore per raccontare la sua esperienza di volontario al Meeting di Rimini.
Signor Farag, che cosa si aspettano i 200 giovani che hanno partecipato al Meeting del Cairo come volontari?
Ciascuno di loro è animato dalla speranza di rendere la società egiziana più libera. Ma, mi dispiace doverlo dire, non si aspettano proprio nulla, non almeno in questa vita o quanto meno oggi come oggi.
Che cosa intende dire?
Questo Meeting è una speranza perché ci dà la possibilità di incontrare nuove persone e di tornare a organizzarlo tra un anno, qui o da un’altra parte. Ma le persone che hanno partecipato al Meeting del Cairo sono solo una piccola parte dei 77 milioni di egiziani, e con l’evento si conclude in qualche modo anche il suo oggetto.
Quali sono le difficoltà a produrre un cambiamento nella vita di tutti i giorni?
Le differenze tra Italia ed Egitto sono conosciute. Qui in Egitto è la religione a costituire il più grande problema per il cambiamento, perché la religione nel nostro Paese entra in tutti gli aspetti della vita, imponendo alle persone di fare, o non fare, una serie di cose.
Ma se la situazione è quella che ha descritto, perché tanti giovani si sono mobilitati per il Meeting?
Quando dico che noi egiziani non ci aspettiamo cambiamenti più rapidi, affermo la verità, e lo faccio perché conosco la situazione e la storia del mio Paese. Non è una cosa che diciamo normalmente agli estranei, e ovviamente mentre preparavamo il Meeting del Cairo cercavamo di non pensarci. Ma la verità è pur sempre questa. Ciò non toglie il fatto che d’altra parte noi consideriamo il Meeting del Cairo come un punto di partenza. Se noi non avessimo nessuna speranza, nessuno inizierebbe a fare una cosa come questa, mentre noi abbiamo deciso di dedicarvi tempo ed energie. Forse non ci aspettiamo mutamenti più veloci, ma un cambiamento ci sarà.
Da dove può venire la speranza che questo accada?
Può essere sufficiente che incominci anche da una sola persona. Se io inizio ora a perdonare e a mettermi al servizio degli altri, chi mi vede sarà portato a ripetere quei gesti e a dire anche ad altri di farlo.
Il fatto che il Meeting sia stato realizzato al Cairo e non altrove vuole dire che l’Egitto è il più tollerante tra i Paesi musulmani?
In realtà, in tutte le nazioni arabe si trovano sia persone dalla mente aperta sia il loro opposto. Evidentemente in Egitto le persone dalla mente più aperta hanno le qualifiche per fare una cosa come il Meeting del Cairo, e hanno colto questa opportunità. Ma questo non vuole dire che non esistano persone di buona volontà anche in altri Paesi arabi.
Nel suo intervento di venerdì ha parlato dell’esperienza della gratuità. Ritiene che possa comprenderla anche un musulmano, benché il Corano non ne parli mai?
Sì, e lo prova il fatto che l’organizzazione del Meeting del Cairo è stata portata avanti da persone di fede islamica. Proprio perché hanno compreso il valore della gratuità, alcuni musulmani hanno messo in piedi un evento come questo. E quindi non posso che rispondere di sì, ci sono musulmani che fanno questa esperienza, e si trovano proprio qui in Egitto. Tra i vari motivi che possono spiegare questo fatto, c’è anche che molti musulmani nel mio Paese frequentano le scuole gestite dalle suore cattoliche, e quindi crescono fin da piccoli con questa idea di gratuità e di perdono.
Lei ha amici di fede musulmana?
Sì, ma non parliamo mai di religione.
Che cosa l’ha colpita del Meeting di Rimini?
Da anni desideravo vedere l’Europa di persona, e non soltanto in televisione. La mia idea era che in Europa tutto fosse permesso e che le persone passassero la loro vita a divertirsi. Ero quindi sicuro che i volontari del Meeting di Rimini fossero tutti ben pagati. Invece ho trovato dei giovani che lavoravano in modo armonioso l’uno con l’altro, senza nessun compenso. Era una macchina che funzionava in ogni suo minimo dettaglio. E ho quindi imparato molte più cose che compiendo un giro turistico.
Che cosa ha imparato?
Noi abbiamo sempre l’idea del lavoro come qualcosa di pesante e faticoso. Venendo a Rimini ho capito invece che cosa significhi realmente prestare un servizio da vero professionista e a farlo senza nessun compenso in cambio. Ho imparato inoltre che ci sono persone che mi possono aiutare e altre persone che devo aiutare. Per non parlare dell’importanza di essere puntuale, e del fatto che il lavoro che compio deve essere apprezzato da tutte le persone che si trovano intorno a me.
(Pietro Vernizzi)