A mio parere giustizia e legalità, oggi ampiamente oggetto di accesi dibattiti a livello politico, scientifico e tecnico, sono esperienze ormai defraudate della loro sorgente nativa, quasi fossero semplici ingranaggi di un meccanismo che si vorrebbe solamente più efficiente e celere, limitato, nelle sue finalità, alla pratica soluzione dei conflitti sociali, quale essa sia e indipendentemente da una domanda di senso.
Ecco perché ritengo che, anche con riguardo alla giustizia e alla legge, il nodo cruciale da affrontare sia quello educativo. Riguardando i più svariati e complessi bisogni dell’uomo, nei suoi rapporti interpersonali e con la realtà tutta, la giustizia è prima di tutto un’esigenza costitutiva e originaria del cuore umano, di come questo possa essere condotto al suo compimento e poi, ma solo come conseguenza necessaria, un percorso tentativamente risolutivo dei problemi che attengono all’ordinata convivenza sociale e alla soddisfazione dei bisogni dei singoli.
L’io non è un prodotto del cervello, come affermava il premio Nobel John Eccles; così come la giustizia non è un prodotto della legge, non è l’esito automatico di una norma positiva, bensì un bisogno che preesiste come urgenza di compimento dell’essere, che va dunque riconosciuto, sostenuto e favorito dalla legge stessa.
Per cui alla domanda, oggi ampiamente diffusa, di come può efficacemente tradursi la giustizia a livello normativo e processuale, mi sembra corretto anteporne un’altra, più importante: “quando l’uomo è giusto?” o, meglio, “cosa rende l’uomo giusto?”, sì da poter conformare a giustizia la stessa interpretazione e applicazione della legge. Perché è evidente, per esempio, che la sentenza di un giudice, benché tecnicamente corretta e immune da vizi logici, può essere sostanzialmente iniqua se l’uomo che la redige non è in un rapporto adeguato con il reale, non “legge” la realtà in modo equilibrato, tenendo conto della pluralità dei fattori in gioco.
Si tende infatti a spostare il tema del giusto e del vero dal soggetto alla tecnica normativa, trasformandolo quindi in un’astratta retorica della “professionalità”, spesso dominata dalla reattività del momento e quindi succube della mentalità dominante e del consenso sociale. Si tratta, a ben vedere, di un problema non del solo oggi. Chi non ricorda la famosa “Storia della Colonna Infame” di Manzoni?
Già allora la stessa vicenda processuale che vide coinvolti, nel 1630, due innocenti cittadini milanesi, accusati di essere gli “untori” della peste che affliggeva la città, venne spiegata in modo diverso dal citato autore rispetto alla versione dell’illuminista lombardo Pietro Verri nelle sue “Osservazioni sulla tortura”. Quest’ultimo aveva infatti accentrato la sua attenzione sulla disumanità della tortura praticata dai giudici, a fini confessori, sui due malcapitati e quindi sulla giusta necessità di abolire tale crudele strumento procedurale.
Manzoni, invece, pur criticando l’efferatezza del mezzo, aveva affermato che quei giudici, se avessero tenuto conto della retta ragione e delle stesse leggi del tempo, così com’erano, sarebbero comunque pervenuti a una diversa soluzione, salvando conseguentemente gli accusati dall’esecuzione capitale.
Si legge infatti nel testo manzoniano “Non vogliamo certamente (e sarebbe un tristo assunto) togliere all’ignoranza e alla tortura la parte loro in quell’orribile fatto: ne furono, la prima un’occasion deplorabile, l’altra un mezzo crudele e attivo, quantunque non l’unico certamente, né il principale. Ma crediamo che importi il distinguerne le vere ed efficienti cagioni, che furono atti iniqui, prodotti da che, se non da passioni perverse? Dio solo ha potuto distinguere qual più, qual meno tra queste abbia dominato nel cuor di que’ giudici, e soggiogate le loro volontà: se la rabbia contro pericoli oscuri, che, impaziente di trovare un oggetto, afferrava quello che le veniva messo davanti; che aveva ricevuto una notizia desiderata, e non voleva trovarla falsa; aveva detto: finalmente! e non voleva dire: siam da capo; la rabbia resa spietata da una lunga paura, e diventata odio e puntiglio contro gli sventurati che cercavan di sfuggirle di mano; o il timor di mancare a un’aspettativa generale, altrettanto sicura quanto avventata, di parer meno abili se scoprivano degl’innocenti, di voltar contro di sé le grida della moltitudine, col non ascoltarle; il timore fors’anche di gravi pubblici mali che ne potessero avvenire: timore di men turpe apparenza, ma ugualmente perverso, e non men miserabile, quando sottentra al timore, veramente nobile e veramente sapiente, di commetter l’ingiustizia….”
Il problema della giustizia, di tutta la giustizia, quindi, è innanzitutto una questione, un’urgenza educativa, e che, per tale natura, non vede come unico soggetto risolutore, lo Stato e le sue varie articolazioni istituzionali. Ed è per questo motivo che – passando ora ad argomenti di mia maggiore competenza – anche i problemi dell’esecuzione penale, della sicurezza, della prevenzione, della varietà dei sistemi punitivi possono e devono essere primariamente ricondotti a una predominante esigenza educativa.
L’art. 27, 3° comma, della Costituzione italiana, afferma che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. La citata norma costituzionale riveste un’importanza eccezionale perché, innanzitutto, rispetto alla pregressa normativa fascista, si discosta da una logica meramente retributiva dei sistemi sanzionatori, affermando che tutte le pene, per loro natura sempre afflittive, devono però “tendere” alla rieducazione.
La Corte Costituzionale, successivamente, nella storica sentenza nr. 204/1974, nel dichiarare illegittima l’attribuzione al Ministro della Giustizia della facoltà di concedere, con proprio decreto, la liberazione condizionale, ebbe ad affermare “il diritto per il condannato a che, verificandosi le condizioni poste dalla norma di diritto sostanziale, il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva venga riesaminato al fine di accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo; tale diritto deve trovare nella legge una valida e ragionevole garanzia giurisdizionale”.
Si è così vincolato il legislatore a strutturare l’esecuzione delle pene a fini di risocializzazione. Al dettato costituzionale sono pertanto conseguite leggi ispirate a tale finalità: la legge 25.07.1975 nr. 354 sull’ordinamento penitenziario, la legge 10.10.1986 nr. 663 (più conosciuta come legge cd. “Gozzini”), il DPR 30.06.2000 nr. 230, per citare le più importanti, ed altre ancora.
Senza addentrarmi nelle novità apportate da tale corpo normativo (che ha introdotto istituti sconosciuti in altri ordinamenti, come le misure alternative al carcere) e per rimanere su un piano sistematico, rilevo, tuttavia, che il suddetto principio costituzionale presenta comunque aspetti di problematicità interpretativa. Mette conto osservare, infatti, che l’art. 27 della Costituzione non precisa cosa si debba intendere per “rieducazione”, né lo hanno fatto in modo specifico le successive legislazioni.
Tale norma era stata infatti oggetto, in seno all’assemblea Costituente, di un compromesso ideale tra le due scuole di pensiero prevalenti: la Scuola Classica e la Scuola Positiva (quest’ultima spostava l’attenzione dalla funzione retributiva della pena, propria della Scuola Classica, alla diversa funzione di prevenzione sociale e, conseguentemente, alla rieducazione e risocializzazione del condannato).
L’Assemblea, dunque, in sede di lavori preparatori, rinunciò a dare una definizione compiuta di funzione rieducativa, dando adito a un successivo e tutt’ora aperto dibattito, in ordine al suo contenuto, tenuto altresì conto delle inevitabili variabili storiche, culturali e politiche che connotano la materia. Tralasciando l’incidenza altalenante che, nel corso degli anni successivi alla Costituente, le due prevalenti scuole di pensiero hanno avuto sulla politica penale e carceraria, si può intanto affermare che, allo stato attuale, la rieducazione del condannato è attuata, principalmente, attraverso il cd. “trattamento penitenziario”.
L’art. 1, ultimo comma, della legge nr. 354/75, afferma infatti che “Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un intervento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti”.
E il successivo art. 13 aggiunge: “Il trattamento penitenziario deve rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto. Nei confronti dei condannati e degli internati è predisposta l’osservazione scientifica della personalità per rilevare le carenze psicofisiche e le altre cause di disadattamento sociale. L’osservazione è compiuta all’inizio dell’esecuzione e proseguita nel corso di essa”.
È chiara, in queste formulazioni, l’impronta tipica della scuola positiva che, pur avendo il merito di aver trasformato il carcerato da semplice numero a individuo con nome e cognome, lo ha reso tuttavia oggetto di un trattamento rieducativo improntato all’“osservazione scientifica della personalità”, alla soluzione delle “carenze psicofisiche” e delle cause di disadattamento sociale.
La rieducazione, pertanto, viene per lo più concepita ancora come esito di uno “studio” personalizzato dell’individuo e finalizzato a una “progressione” comportamentale in senso risocializzativo. Va, tuttavia, aggiunto che i successivi artt. 15 e 17 dell’Ordinamento Penitenziario, hanno comunque consentito un’apertura prima inimmaginabile al concetto di rieducazione (seppur impostata, come detto, nella cornice di un’”osservazione scientifica”). La prima delle due citate norme (elementi del trattamento) specifica infatti che il trattamento “viene svolto avvalendosi dell’istruzione, del lavoro, della religione, delle attività ricreative-sportive, agevolando opportuni contatti con il mondo esterno e con la famiglia”.
La seconda stabilisce che “La finalità del reinserimento sociale dei condannati e degli internati deve essere perseguita anche sollecitando e organizzando la partecipazione di privati e di istituzioni o associazioni pubbliche o private all’azione rieducativa”. Sono inoltre ammessi a frequentare gli istituti penitenziari, con l’autorizzazione e secondo le direttive del magistrato di sorveglianza, su parere favorevole del direttore, “tutti coloro che avendo concreto interesse per l’opera di rieducazione dei detenuti, dimostrino di poter utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera”.
Si tratta di una chiara apertura al privato sociale nel senso della ammessa possibilità , da parte del legislatore statale, di un sussidiario intervento del sociale nell’opera rieducativa del condannato. Accanto a una politica di decarcerizzazione, attuata principalmente dalla legge cd. “Gozzini” (seppur in parte successivamente frustrata nei suoi principi ispiratori), il legislatore ha così voluto il contributo della stessa libera società, “aprendo” le carceri all’intervento di cittadini, associazioni ed imprese, interessati operativamente al recupero del detenuto.
Si è assistito, così, nel corso degli anni successivi, nonostante bruschi ripiegamenti involutivi dovuti a legislazioni d’emergenza, al proliferare di progetti ed iniziative nati dalla spontanea e virtuosa dedizione di singoli e gruppi mossi da intenti solidaristici o da autentica carità cristiana. Ciò, a mio parere, ha finito con l’influire, nel tempo, sul contenuto e la finalità della stessa “rieducazione”.
Se infatti alcuni, mossi da pur nobili propositi, si sono limitati a offrire a detenuti strumenti e opportunità per “progredire” nel loro percorso trattamentale sì da poter accedere più facilmente a benefici penitenziari, per altri la rieducazione è stata un vero e proprio “incontro” tra un io e un tu, valorizzatore dell’individuo e della sue potenzialità, un avvenimento relazionale che, pur non eliminando formalmente l’involucro della progressione trattamentale, si è rivelato da subito capace di generare speranza e quindi un autentico cambiamento della persona, non più proiettata solo ad un “fuori”, ma cresciuta e sostenuta già “dentro” in un rapporto carico di significato.
Naturalmente la strada è lunga e non mancano ostacoli alla piena attuazione di una sussidiarietà educativa. Uno è rappresentato dalla rigidità dei sistemi carcerari, poco flessibili per loro natura alle esigenze dell’impresa (per ciò che concerne, ad esempio, il lavoro) la quale, a sua volta, deve essere aiutata e sostenuta, attraverso il riconoscimento di maggiori sgravi fiscali e di contribuzioni, per incentivare l’investimento sui detenuti.
Un altro è costituito dall’attuale sovraffollamento carcerario che rende inaccessibili grandi fette della popolazione detenuta all’iniziativa operosa dei singoli e delle stesse imprese. Le risposte a tali problemi sono molteplici e complesse e per lo più rese anche di difficile attuazione sia per la spinta giustizialista che vede nel carcere l’unico rimedio risolutivo dei comportamenti devianti, sia per la permanenza di uno statalismo paternalista che teme perdere il potere di controllo sulla devianza stessa.
Nei paesi anglosassoni l’esigenza di un affrancamento sia dal processo penale che dal carcere ha condotto all’individuazione di strumenti operativi di affronto delle tematiche criminali improntato al principio di minor offensività, ispirato a criteri di praticità e di riduzione dei costi.
Esemplificativi, in tal senso, sono gli istituti delle cd “Diversion” e “Probation” che, specialmente in Inghilterra, ma anche in altri stati come gli USA e il Canada, indicano, in modo descrittivo, la raccolta di strategie punitive poste al di fuori dei confini tradizionali e formali del procedimento penale e del carcere.
Certo, nei paesi anglosassoni, la scelta di strategie risolutive dei conflitti sociali, diverse dal processo ordinario, sono, come detto, più improntate a scopi pragmatici che educativi, ma non si vede perché, mantenendo una preoccupazione rieducativa, non si debba optare per soluzioni meno costose per la collettività e più efficaci in termini di recupero effettivo.
In Italia, a dire il vero, già esistono istituti affini a quelli sopraindicati, come l’affidamento in prova ai servizi sociali (sia ordinario che terapeutico) e in genere le misure alternative al carcere, la messa alla prova per i minori, i lavori socialmente utili, la mediazione penale. Si tratta di istituti relativamente recenti, poco conosciuti dalla collettività e che andrebbero invece rafforzati e sostenuti con interventi anche del privato sociale allo scopo di attuarne pienamente la finalità rieducativa impedendo, così, che si riducano a meri meccanismi assistenziali o pseudo-contrattuali.
Tra il carcere, così come attualmente esistente, e le misure alternative potrebbero poi essere realizzati “carceri leggeri”, strutture detentive a “bassa sicurezza”, recuperando caserme o edifici pubblici dismessi, per soggetti non particolarmente pericolosi, gestite con accordi tra il settore pubblico e il privato sociale, senza presenza di personale di polizia penitenziaria all’interno, con la permanenza, per contro, di controlli solo al di fuori della cinta muraria, come nel sistema cd. “modulare” spagnolo.
Lo squilibrio, determinato dal sovraffollamento, può ancora trovare un più adeguato approccio risolutivo anche con il ricorso (come peraltro già avviene in Inghilterra) a forme di “partenariato pubblico-privato” – si pensi all’istituto del “project finance” – così come disciplinato dal D.Lvo 163/06 (e successive modifiche ed integrazioni).
In Gran Bretagna, infatti, con tale sistema, i privati, dotati di specifico know-how, progettano, realizzano, gestiscono e finanziano la struttura carceraria per un certo numero di anni, decorsi i quali l’opera così realizzata, rientra nella disponibilità della Pubblica Amministrazione. Attraverso specifici indicatori di performance qualitativa cui risulta informata l’esecuzione del rapporto contrattuale ed ai quali è legata anche l’erogazione del relativo contributo pubblico, lo Stato, nell’ottica della migliore e proficua collaborazione pubblico-privato, può comunque garantire un costante livello di eccellenza nella gestione dell’opera pubblica.
Se è vero che anche lo Stato, a prescindere dall’intervento privatistico, può fornire, in linea di principio, la stessa qualità di servizio, è altrettanto vero che, nel settore pubblico, manca un meccanismo che la incentivi. Le attenzioni sulle performance qualitative, sopra richiamate, potrebbero sicuramente favorire, anche in Italia, una competizione virtuosa tra pubblico e privato che, come nell’esempio inglese, ha, di fatto, condotto a un netto miglioramento, a livello gestionale, delle strutture carcerarie di competenza esclusiva dello Stato.
Concludendo, le osservazioni sin qui svolte, sia con riferimento alla giustizia in generale (con i suoi sistemi processuali e sanzionatori), sia con riferimento alla individuazione di risorse umane, personali e sociali, nonché di strumenti operativi che ne facilitino l’attuazione conducono, in ogni caso, alla necessità di un’imprescindibile e presupposta preoccupazione educativa che riguarda, indistintamente e anzitutto, l’uomo in quanto tale e il suo bisogno di compimento.