Prima attore. ora regista, Alessandro D’Alatri è stato il presidente di giuria del Meeting film festival, concorso internazionale di cortometraggi, che ieri sera ha visto vincere il film spagnolo “La Piñate”. Oggi D’Alatri interverrà allincontro Il cinema e i suoi protagonisti con Christopher Newman, ingegnere del suono e il giornalista Massimo Bernardini. Gli abbiamo quindi chiesto, oltre a un commento sul Festival, di raccontarci verso quale direzione sta andando la cinematografia, anche attraverso la sua esperienza così versatile dietro alla macchina da presa.



Questanno ha presieduto il Film Festival del Meeting. Quali sono le peculiarità dei cortometraggi che erano in concorso e i criteri che avete seguito per la selezione?

Questo è un festival giovanissimo, alla sua terza edizione. Sta ancora muovendo i primi passi, ma passi importanti, in campo internazionale. Le opere sono arrivate, infatti, da tre continenti. E molto indicativo che il premio previsto sia un corso alla School of Visual Art di New York, e non una targa come molti altri festival. Si vuole, infatti, accompagnare i talenti emergenti.



Non abbiamo giudicato quindi lopera in sé e per sé, analiticamente, ma abbiamo segnalato tracce di talenti e di vita provenienti da mondi diversi. Il criterio non è, per lavori così giovani, unanalisi dellopera nella sua completezza ma lindividuazione di nuovi spunti, nuove direzioni, in unottica dincontro tra le culture.

E questo incontro lintento del Festival?

Lintento é identificare talenti e combattere pregiudizi e immobilismi. La globalizzazione é spesso vista solo come aspetto del mercato ma dovrebbe invece incentivare un confronto reale fra mondi diversi. Il Festival promuove questa logica, una logica di abbraccio e di incontro fra esseri umani, ispirandosi agli ideali del Meeting.



Una cosa rara in Italia, dove il pregiudizio dilaga. Andare contro i pregiudizi é molto cristiano ed é quello che fa questo Festival e che cerco di fare col mio lavoro.

E, infatti, lei é andato contro un certo immobilismo italiano con le molte sperimentazioni del suo ultimo film, Sul mare. Ha utilizzato tecnologie digitali e diretto un cast di esordienti

Sento che cé unasfissia culturale della nostra cinematografia. I cast sembrano spesso studiati a tavolino, come una nazionale di calcio. Io invece ho sempre cercato di dare spazio ai talenti emergenti. DallAmericano Rosso a Senza pelle, con un Kim Rossi Stuart che veniva da Fantaghirò e da Il ragazzo dal kimono doro, ed é oggi tra gli attori più interessanti del panorama italiano.

Ho sempre voluto combattere contro i pregiudizi, anche lanciando Fabio Volo, che aveva un passato da dj. Stavolta ho scelto due giovani attori per il loro curriculum formativo. Ho preso due ragazzi che hanno studiato duramente per recitare, in un paese in cui manca del tutto la meritocrazia. Anche per il prossimo progetto sto molto sperimentando. E questa la mia natura: chi fa il mio lavoro non lo fa per un riconoscimento immediato ma per quello che verrà.

I suoi film non sono mai astratti o ideologici come molto cinema d’arte italiano, possiedono invece una profondità che sa conquistare anche il grande pubblico. Come sceglie le storie da raccontare?

 

La cosa fondamentale per chi fa il mio lavoro é quello di essere un recettore sensibile dei comportamenti umani che ci circondano. Sono un grande osservatore, mi affascinano i comportamenti, che indicano spesso delle contraddizioni. E dove c’é contraddizione c’é storia. Tutti i miei film partono da questo punto di vista. Casomai in particolare. Il cinema che piace a me riesce a coniugare questa tensione con l’intrattenimento.

Del resto il cinema è uno spettacolo per sua natura popolare, anche se l’opportunità di intrattenere lasciando tracce di riflessione è sempre più difficile. Non a causa dell’industria cinematografica, che é molto cresciuta, ma perché il pubblico premia scelte facili legate a codici televisivi, costringendo tutti ad adeguarsi verso il basso. La commedia, che insieme al neorealismo é stata una delle forme più importanti nel cinema italiano, non vede più film profondi come La grande guerra o Una vita difficile, ma sta degenerando in commediola. Faccio molta fatica a relazionarmi con un pubblico che chiede solo quello.

 

Ha citato Casomai. In quel film é andato controcorrente, presentando un’idea di coppia che contempli anche la fatica e la sfida del “per sempre”. Crede sia possibile una promessa così nella nostra Modernità Liquida?

 

Cresciuto negli anni ’70, appartengo a una generazione che s’é interrogata molto sulle tematiche relazionali. Noto però che, ancora oggi, non s’é trovata un’alternativa alla coppia tradizionale. Il modello di riferimento rimane quello. E’ una scelta che diventa sempre più faticosa: la solitudine della coppia é peggiorata rispetto a dieci anni fa, quando ho girato Casomai. C’é un vuoto legislativo rispetto alla famiglia incolmabile: lo Stato non la considera un’unità. Nella società postindustriale servono infrastrutture di sostegno perché è venuto a mancare il sostegno della famiglia patriarcale contadina. Venendo meno la figura degli anziani, é venuta meno anche la memoria. Io so chi sono per merito dei miei nonni: oggi i genitori non hanno ne’il tempo ne’la conoscenza per tramandare le radici.

Ci si può impegnare, come abbiamo fatto io e mia moglie con le mie due figlie adolescenti, ma arriva la scuola a rovinare tutto, con docenti senza nessun talento socio pedagogico. Manca totalmente l’educazione al rispetto degli altri e della cosa pubblica. Sono, insomma, subentrati altri dieci anni di solitudini sulle spalle di quelle famiglie.

 

Da ragazzino, nel 1969, ha recitato negli storici Fratelli Karamazov della Rai. Cosa si ricorda di quell’esperienza e della TV di allora?

 

Il regista dei Karamazov, Sandro Bolchi, mi ha chiamato quand’é uscito l’Americano Rosso, orgoglioso di avermi tenuto a battesimo. Ricordo una profonda serietà di quel lavoro che oggi non vedo più. Tant’é che ho girato film, documentari, spot ma mai una fiction. Preferisco non farlo perché il livello qualitativo dei referenti con cui bisogna lavorare per fare televisione é veramente frustrante. Eppure sarei interessato a un contatto col vasto pubblico. A quell’epoca invece avevo dodici anni e mi dovetti leggere i Karamazov per interpretarli.

La televisione di allora tra il teatro di De Filippo, gli sceneggiati culturali, gli show conturbanti di Renato Zero e delle Kessler, riusciva a fare intrattenimento senza mai essere volgare. E pensare che la chiamavano televisione democristiana. Non posso che avere rimpianti. Per il presente non c’é speranza, dobbiamo costruire per le generazioni che verranno. E’ anche un concetto molto cristiano, investire su chi verrà.

 

Che poi, far accorgere il mondo della direzione che sta prendendo sarebbe proprio compito degli artisti…

 

Infatti i poeti l’hanno sempre fatto, ma oggi la poesia vive un momento di asfissia e gli stessi poeti del passato sono dimenticati, come faccio vedere nella sequenza de La febbre, con le loro tombe trascurate. C’é una frase di Paolo VI che ha molto ispirato la mia vita,: ”E finita l’era dei maestri, comincia l’era dei testimoni”. E’ il pensiero più rivoluzionario del ‘900 e nessuno l’ha raccolto. Oggi è solo la testimonianza che può essere d’indicazione.

 

(Eleonora Recalcati)