Anche quest’anno mi ero ripromesso di venire a Rimini. Anche quest’anno, per un motivo o per l’altro, non sono venuto. Anche quest’anno ho sbagliato. Anzi: stavolta ho sbagliato più di tutte le altre volte. Prima di tutto, per via del tema stesso di questa edizione del Meeting. Personalmente ho sempre diffidato delle polemiche, chiamiamole così, contro il cosiddetto “relativismo”: un qualsiasi dizionario dei sinonimi e dei contrari ci avverte che il contrario di relativismo è assolutismo. Ma, in tempi come questi che ci è dato in sorte di vivere, così pervasi da una sensazione all’apparenza almeno invincibile di impotenza e di inanità dell’agire secondo un fine, l’idea stessa di interrogarsi su come rimettere in campo delle certezze individuali e collettive, e di chiamare a confrontarsi su queste domande la politica, l’economia e la cultura, merita un’attenzione tutti particolare.



Naturalmente, c’è modo e modo di affrontare il tema. La risposta peggiore, almeno ai miei occhi, è (uso sbrigativamente un termine meritevole di analisi assai più approfondite) quella integralistica: la verità è una, la nostra, e agli altri possono scegliere tra il prendere e il lasciare. Il Meeting ha una lunga, e ormai consolidata, tradizione di apertura, la certezza di sé, e il forte senso di appartenenza che ne deriva, da molti anni, nella vostra storia, non è in antitesi, anzi, con l’ascolto e il confronto con le posizioni altrui. Non era scritto da nessuna parte che anche stavolta, nel vivo di una crisi tanto drammatica, fosse così.



E invece questa edizione del Meeting forse più di ogni altra è stata improntata a questo spirito. In una stagione che sembra segnata da una guerra di tutti contro tutti tanto feroce quanto improduttiva, al centro del Meeting di Rimini c’è stata la ricerca delle cose che si possono e si debbono fare insieme senza che nessuno debba mettere a rischio la propria anima, anzi, cercando di fare in modo che ciascuno della propria storia e della propria cultura possa rintracciare e far pesare la parte migliore, meno caduca, più viva. Dal punto di vista politico, l’unico sul quale mi sento autorizzato a formulare un giudizio, la sintesi più alta e significativa di tutto questo è rappresentata dall’intervento di apertura di Giorgio Napolitano, e dalla grande attenzione e condivisione che ha suscitato in una platea soprattutto giovanile. Ho cercato, commentandola sul Corriere, di coglierne qualche aspetto un po’ sottovalutato dalle cronache e dai commenti a caldo.



Due su tutti: il giudizio sul ventennio o quasi che abbiamo alle spalle (in una parola: sulla cosiddetta Seconda Repubblica) e l’appello ai giovani, di Cl e non solo, perché si facciano protagonisti con le loro idee, le loro speranze, le loro passioni e quindi le loro certezze, di un ritorno alla politica e della politica, senza il quale rischiamo tutti, giovani e meno giovani, di restare intrappolati sotto queste macerie. Ho letto, qualche giorno fa, un’intervista di Giorgio Vittadini al Riformista, e mi è parso che Vittadini in larga misura condividesse questo tipo di analisi. Sono d’accordo con lui, le contestazioni alla “casta” non portano da nessuna parte, e rischiano anzi di prendere una piega tendenzialmente antidemocratica, se alla critica (legittima) dei simulacri di partiti che oggi offrono un così triste spettacolo di sé non si accompagna l’impegno a far sì che i partiti tornino ad avere “una base e un radicamento popolare”, e i loro leader tornino a venir fuori “dalle sezioni, dalle parrocchie, dai territori”, e non siano più dei “demiurghi”, o presunti tali, espressi da “cerchie ristrette”.

Mi piacerebbe condividere anche il suo ottimismo e la sua fiducia nella possibilità che i segnali in questo senso, che pure ci sono (è il caso, come ha ricordato significativamente anche Napolitano, dell’intergruppo parlamentare sulla sussidiarietà), già indichino il bel tempo in arrivo. I buoni esempi vanno, oltre che apprezzati e pubblicizzati, coltivati con cura, ci mancherebbe, e andare controcorrente, di questi tempi, è un vanto intellettuale, culturale e persino morale, oltre che, ovviamente, politico. Ma io sono, e me ne dispiace, un po’ più pessimista. A combinare disastri non ci vuole moltissimo. Venirne a capo è un’impresa titanica.   

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