ANTONIO QUAGLIO, inviato del Sole 24 Ore, partecipa in questi giorni al New York Encounter
L’applauso del Manhattan Congress Center, gremito, scroscia quando sui display compare ancora il volto di Vaclav Havel: il primo presidente della Cecoslovacchia liberata dal comunismo, scomparso pochi giorni fa. Marie Ann Glendon ha scelto un vecchio poeta chiamato alla politica dal suo popolo come ultimo stimolo del suo intervento inaugurale al New York Encounter. Havel: irriducibilmente convinto che nessuna “buona causa” dovesse essere sottratta all’impegno pubblico di uomini responsabili e protagonisti. Ma la politica è già una “cosa buona per uomini buoni” nel pensiero di Aristotele: non meno tuttavia che nell’esperienza civica collettiva della Siena tardo-medioevale, ritratta negli affreschi di Jacopo Lorenzetti. “Ora la sala del ‘Buon Governo’ è diventata un museo” ironizza la grande giurista di Harvard: per la quale non esiste invece soluzione di continuità fra quel modo di vedere e vivere la “cosa pubblica” e il desiderio che muove molti suoi neo-iscritti della scuola di legge dell’ateneo bostoniano. “Molti studiano legge per fare politica e fare politica significa trovare a way to make the difference, una via personale per ‘fare la differenza’ nel desiderio di trasformare le cose”.
All’inizio di un anno elettorale negli Stati Uniti – ma non solo – la presidentessa della Pontificia Accademia per le Scienze Sociali non si nasconde la difficoltà di tener viva la proposta culturale di “politics as a vocation”: una cappa di giudizi e pregiudizi negativi, di frustrazione e delusione, ricopre in permanenza i territori dell’impegno pubblico. La compatibilità tra politica e morale, in particolare, continua a presentarsi ardua: tanto allo studioso (Glendon ha appena pubblicato The Forum and the Tower) quanto al singolo cittadino chiamato a “fare politica” anche solo come semplice elettore. Eppure è ancora possibile distinguere fra mediazione politica e compromesso etico: anche per questo – ha sottolineato Glendon – lo stesso Concilio Vaticano II ha indicato al cristiano l’intervento politico come possibilità qualificata di realizzazione della propria fede. Di certo, non è del cristiano che fa politica l’essere catturato dal semplice coacervo degli interessi di chi cerca rappresentanza. Ed è qui che Glendon ha evocato il pensiero del filosofo-politico irlandese Edmund Burke: incapace tre secoli fa di concepire un parlamentare o uomo di Stato che rinunci alla proprio indipendenza di giudizio (ancopra una volta alla propria “vocazione” al bene comune) semplicemente per compiacere i suoi elettori.
Il cuore della politica – quand’essa si lasci guidare dalla propria vocazione – rimane dunque “troppo grande per fallire”: ed è stato certamente singolare – ma in fondo non casuale – ascoltarlo da un’intellettuale che si è messa alla prova coma diplomatica tra Stati Uniti ed Europa. mentre sui siti di news crepitavano le notizie sulla guerra finanziaria che sta infuocando i due lati dell’Atlantico.