Almeno a partire da Cartesio (XVII secolo) nel lessico filosofico il termine “natura umana” non indica più un “dato”, quanto piuttosto un “problema”. Questo problema dice: che cosa distingue l’uomo, nella sua natura peculiare, rispetto agli enti della natura fisica? La risposta di Cartesio è che l’essere umano è essenzialmente un “io” o un “soggetto” identificato con il suo pensiero e in linea di principio (anche se non certo di fatto!) separabile dal suo corpo, o meglio di natura sostanzialmente diversa dalla corporeità. 



Ma questo tentativo di risolvere il problema, in realtà lo ha amplificato e lo ha consegnato, irrisolto, ai secoli successivi, tanto che esso getta ancora oggi la sua ombra sul dibattito filosofico. Un “nemico” antico, quello del dualismo tra la mente e il corpo, o tra la mente e il cervello, contro il quale continua a combattere il mainstream dell’attuale ricerca su ciò che è “specifico” della natura umana e sull’eventuale esistenza di qualcosa che la renderebbe “speciale”, cioè qualitativamente differente, da tutte le altre specie. 



È stato senza dubbio lo sviluppo esponenziale delle neuroscienze (a partire dagli ultimi due decenni del secolo XX) a riaprire il problema. Le neuroscienze tentano infatti di spiegare la vita della nostra mente mediante i processi di attivazione elettrochimica dei neuroni e delle sinapsi che formano il tessuto del nostro cervello, considerato nelle sue diverse parti (o “moduli”), ciascuna delle quali sovrintende ai diversi tipi di comportamento della nostra vita percettiva, della nostra vita cosciente (cioè capace di elaborare le proprie esperienze attraverso il linguaggio) e della nostra stessa autocoscienza (mediante la quale avvertiamo il nostro “sé” come il soggetto di un’esperienza vissuta). Ma nel momento in cui riaprono il problema della specificità della natura umana, le neuroscienze portano tendenzialmente a chiuderlo, ritenendo semplicemente un’illusione quella di un “io” che sia più dei suoi fattori cerebrali e di un’individualità che poggi su “qualità” che trascendano la sua matrice neuro-biologica. Sarebbe dunque una pretesa illegittima, come ha fatto una lunga tradizione, ritenere che la “razionalità” – ossia l’intelletto e la volontà libera di una persona – costituisca la specificità sostanziale dell’animale-uomo. Come li ha definiti Daniel Dennett, si tratterebbe in fondo di sweet dreams, i sogni dei “filosofi” e dei “teologi” riguardo all’irriducibilità del nostro spirito, che saranno anche dolci da sognare (e ci permettono di continuare a credere di essere “unici” e padroni di noi stessi), ma restano pur sempre delle mere credenze della nostra mente, sebbene le ricerche delle scienze empiriche ci attestino una realtà deterministica molto meno “dolce” da accettare.



Di qui nasce l’interrogativo: ma chi siamo veramente noi, se la causa di ciò che crediamo unicamente “nostro” non siamo noi stessi, ma è il funzionamento biologico del (nostro) cervello? E in definitiva noi siamo il “soggetto” o semplicemente il “prodotto” delle nostre funzioni? 

Non mancano coloro che, rispetto allo strapotere delle neuroscienze, puntano decisamente su fattori non spiegabili in via esclusivamente cerebrale, come le strutture del linguaggio innate nella nostra mente, che costituirebbero un vero e proprio salto qualitativo o ontologico della natura umana – o della specie “uomo” – rispetto alle altre specie animali (Noam Chomsky, e in Italia Andrea Moro); o come la cosiddetta “estensione” della nostra mente al di là del nostro cervello, nel rapporto con il mondo esterno, sia fisico che culturale (Andy Clark e David Chalmers, e in Italia Michele Di Francesco), o l’“incarnazione” della mente nelle attività del corpo di un soggetto che percepisce il mondo circostante (Alva Noë). 

Ma si tratta di tentativi che hanno sempre l’onere di giustificarsi rispetto alla matrice neurobiologica, assunta come la base indiscutibile e il metro di misura di ogni spiegazione “scientifica” della natura umana. Insomma, per capire “oggettivamente” il proprium di quest’ultima, non è tanto all’esperienza vissuta in cui noi “sentiamo” soggettivamente noi stessi e il mondo che dobbiamo rivolgerci, quanto piuttosto alle tecniche di rilevamento cerebrale, come le immagini fornite dalla “Risonanza magnetica funzionale”.

Ma questo naturalismo neuro-biologico ha un rovescio apparentemente contrario, in realtà complementare e solidale, vale a dire la tendenza “nichilistica” e “relativistica” di buona parte del pensiero contemporaneo, che mette in discussione la visione classica e soprattutto ebraico-cristiana dell’uomo come l’apice della creazione, in virtù della sua ragione e della sua libertà. Almeno a partire da Nietzsche (e poi con autori quali Heidegger e Foucault, ciascuno naturalmente a suo modo) uno dei compiti assunti dal pensiero contemporaneo “di tendenza” sembra essere quello dell’anti-antropocentrismo, della destituzione del soggetto umano come il “signore” della natura e il fine del mondo intero. Non che oggi non si parli più di scopi umani nel mondo, ma si afferma che essi – riprendendo una posizione di Kant – non possono più essere trovati nell’uomo come un dato esistente, cioè nel suo stesso “essere”, bensì nel suo “dover essere”, nella responsabilità morale o negli scopi che la ragione è chiamata a realizzare attraverso la “cultura” e l’organizzazione della società (è la posizione di Habermas). La natura umana non va più pensata in rapporto con il suo creatore, ma solo come l’impegno etico (e magari eco-sostenibile) della propria auto-realizzazione.

La prospettiva del nichilismo culturalistico ha in comune con il monismo naturalistico la considerazione dell’“io” come illusione metafisica, solo che in questo caso l’individuo umano è interpretato come l’esito delle narrazioni culturali e delle costruzioni sociali. Insomma la natura umana, soprattutto in quella sua emergenza individuale che fa dire a ciascuno di noi di essere una realtà unica e irripetibile, sarebbe o una pretesa illusoria o una costruzione culturale. 

Eppure resta aperta una questione: da dove nasce questa illusione del nostro io, da cui non possiamo liberarci, nonostante tutte le spiegazioni neurobiologiche e culturali che ne forniamo? Si dirà: è solo questione di tempo, perché ciò di cui per ora è consapevole solo un’avanguardia di scienziati e di filosofi possa diventare convincimento comune. In fondo non accade lo stesso quando vediamo “sorgere” il Sole la mattina, e questo ci riempie di meraviglia e di commozione, pur sapendo esattamente che il Sole non sorge affatto ma è la Terra che gira attorno ad esso? Siamo stupiti, insomma, per qualcosa che sappiamo essere – contro-intuitivamente – un’illusione ottica! Certo, nel caso del nostro io individuale l’illusione saremmo noi stessi (cosa che renderebbe questa “illusione” diversa da tutte le altre, come John Searle ha obiettato a Dennett), e quindi alla fine dovremmo considerarci come creature che “sentono” emozioni e desideri, nutrono aspettative e sogni, sapendo che in realtà sono solo esseri determinati dai meccanismi neuronali e sociali. 

Il fatto è però che questo fenomeno della nostra auto-coscienza, per quanto ci impegniamo a spiegarlo come l’esito di un determinismo fisicalista o culturalista, resiste nell’esperienza che abbiamo di noi stessi. 

Possiamo definirlo come una credenza dura a morire o come un residuo misterioso della spiegazione deterministica, ma esso chiede di essere preso sul serio dalla stessa ricerca scientifica, non neutralizzato come qualcosa che col tempo sarà anch’esso riducibile ai meccanismi del nostro cervello o come qualcosa che, in quanto non riducibile, è semplicemente “indeterministico” o addirittura irrazionale. Come riconoscono alcuni degli esponenti dello stesso dibattito neuroscientifico (penso in Italia a Mario De Caro, Andrea Lavazza e Giuseppe Sartori), non bastano i soli rilevamenti della neurobiologia per venire a capo dell’identità libera dell’individuo personale. 

Per affermare il mistero razionale dell’irriducibilità dell’individuo umano non siamo affatto costretti a negare la validità dei rilevamenti delle scienze empiriche sul nostro cervello. Ma d’altra parte non dobbiamo censurare o eliminare il “dato” – altrettanto empirico – della persistenza della coscienza di un nostro “sé” personale. Tutto il problema dell’esistenza di una specifica “natura umana” si gioca a questo livello.

Già Kant si era chiesto, nella Critica della ragion pura, come mai la ragione umana, pur sapendo che non potrà mai conoscere empiricamente l’anima (ossia l’io come sostanza spirituale) così come conosce il suo corpo, continua inevitabilmente a cadere in questa “illusione” o “parvenza”. La sua risposta è che la ragione umana è, per sua “natura”, metafisica, cioè tende strutturalmente a cogliere l’incondizionato e l’infinito, pur senza mai poterlo afferrare. Oggi, proprio con il guadagno di sempre nuovi dati empirici circa il funzionamento cerebrale e il condizionamento culturale che sottendono la nostra mente, e quindi la nostra coscienza, questa “illusione” lungi dall’essere stata eliminata mostra forse il suo vero volto: non quello di un antico auto-inganno, ma quello di un rapporto strutturale con l’infinito. Si cerchi pure di trovare il particolare meccanismo del nostro cervello che produrrebbe questo rapporto con l’incondizionato (vale a die con la totalità dell’essere, con il senso ultimo di sé e delle cose e addirittura con la capacità di pensare il “niente”): ebbene questo non sarebbe una liquidazione di tale rapporto, ma probabilmente attesterebbe che il nostro stesso cervello è fatto per qualcosa di più grande di sé.

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