In questo Meeting di Rimini si parla anche degli albanesi, con un mostra dal titolo “Albania, Athleta Christi”. Sono passati cento anni da quando questo popolo, probabilmente il più antico e il meno conosciuto in Europa, si è liberato da cinque secoli di dominio turco. Cento anni in cui gli albanesi hanno continuato drammaticamente la ricerca di una definizione della propria identità, che continua però a sfuggire.



Una ricerca dai toni accesi, cocciuta, piena di intelligenza e al contempo di violenta ignoranza, tra mille contraddizioni e momenti di gloria. Da una parte essi sono il popolo che ha vissuto il più feroce totalitarismo ateo della storia d’Europa, dall’altro quello che ha dato i natali alla più grande santa del secolo breve, Madre Teresa. Si tratta del popolo che è passato da una cultura sostanzialmente medievale ai problemi del relativismo contemporaneo in pochissimi decenni. Per il pubblico degli europei dei nostri giorni l’argomento Albania ha oggettivamente poco fascino. Eppure si muove l’interesse quando si scopre che la mostra pone alcune domande che sono reazione a quella vera e propria crisi dell’io, crisi di identità e relazionale, che segna tutta l’Europa.



La mostra nasce dall’esperienza di un gruppo di amici albanesi cattolici che vivono in Italia e che si rendono conto che la loro religiosità è parte costituente del loro essere albanesi. Questo porta a guardare e a documentare la storia dell’Albania cattolica con passione ed interesse, ma soprattutto determina la conclusione del percorso con alcune domande: “Quali forze hanno cambiato e possono cambiare la nostra storia?” e “È in grado ogni albanese di chiedersi in che misura possiede la verità e, come conseguenza di questo rapporto, quanto è libero?”. E si comprende come siano domande che coincidono con le questioni poste dalla Chiesa alla contemporaneità europea occidentale.



“È a questo grande logos, a questa vastità della ragione, che invitiamo nel dialogo delle culture i nostri interlocutori”, diceva Benedetto XVI a Ratisbona. La mostra documenta il sorgere di queste domande nella ricerca dell’identità albanese all’interno di quella europea, attraverso l’incrocio tra dato storico ed esperienza personale dei curatori. Il dato storico sono tre grandi icone dell’Albania.

La prima è Giorgio Castriota Scanderbeg, l’eroe nazionale albanese che nel XV secolo fermò l’avanzata turca verso l’Europa. È lui l’Athleta Christi che, alla guida di un popolo la cui unità era cementata dal cristianesimo, compì il miracolo vincendo per quarant’anni gli eserciti del più potente impero del suo tempo. Compimento della storia antica e medievale albanese, egli è il mito nazionale che segna la storia successiva dell’Albania. Gli ordini religiosi e il clero cattolico, seconda grande icona dell’albanismo, conservano nella tradizione il mito di Scanderbeg e traghettano tra mille avversità l’identità del popolo durante i secoli di dominazione ottomana, consegnandola al risorgimento albanese all’inizio del ventesimo secolo.

 

La mostra procede documentando come la fragile indipendenza albanese, conquistata nel 1912, fosse messa puntualmente in pericolo dal violento sciovinismo dei paesi vicini e come protagonisti del patriottismo albanese che si prodiga per la salvaguardia della madrepatria fossero ancora i grandi uomini del clero cattolico e degli ordini religiosi. L’avvento del regime comunista, che proclama l’ateismo di stato applicandolo con determinazione e ferocia tali da portare allo sterminio del clero albanese e alla distruzione dei luoghi di culto, fa precipitare il paese in un buio periodo di chiusura. L’Albania ne uscirà devastata nel 1991.

 

Da allora, gli albanesi, pur formalmente liberi, rischiano di veder dissolta la loro identità. Una nuova ideologia fondata sulla conservazione della superficiale armonia tra confessioni come salvezza dell’identità albanese inizia ad affermarsi, senza arrestare il precipitare di una crisi economica e culturale alla fine degli anni novanta, che si ferma alle soglie della guerra civile. L’ultima parte della mostra individua nella sua terza icona, Madre Teresa, la risposta esistenziale all’esigenza di definire l’identità albanese.

 

Il richiamo a questa figura permette all’opera di concludersi con l’apertura costituita dalle domande indicate sopra, rivolte a tutti gli albanesi, ma non solo: per iniziare a ridefinire l’identità di un popolo l’invito è tenere come punto di partenza l’assunto per cui “la natura dell’uomo è rapporto con l’infinito”.

 

(Teodor Nasi, curatore della mostra “Albania, Athleta Christi”)

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