Nei giorni del Meeting la mostra ideata e sviluppata da John Waters sull’urgenza di urlare la necessità di infinito anche attraverso il rock è stata una delle più visitate. Avendo la fortuna di aver partecipato alla nascita della mostra e contribuito alla sua realizzazione con alcuni brevi ritratti di autori, sono stato anche coinvolto in alcune guide alla mostra stessa, raccogliendo reazioni, pareri, contrarietà, entusiasmi, delusioni, encomi solenni.  Giovani e famiglie, uomini dal capello ormai grigio e ragazzini con l’heavy metal scolpito addosso hanno navigato in mezzo a frasi e fotografie di Van Morrison e della Dave Matthews Band, magari chiedendosi cosa c’entrasse il tutto con il desiderio di infinito, oppure al contrario domandandosi come fino a poco prima avevano fatto a vivere senza capire dove il rock potesse andare a parare. E’ stato un bellissimo percorso seguire e chiacchierare con ragazzi e vecchietti tutti diversamente coinvolti nel cercare di capire, registrando la voce di chi mi ha confessato di trovare “noiosa la celebrazione dei morti per eroina” o ascoltando sorpreso la confessione semplice e immediata di una ragazza da sempre convinta che “sicuramente il buon Dio non può rinunciare a tenere Freddie Mercury in Paradiso, vista l’incredibile voce di cui l’aveva dotato”. 



Una cosa è certa: la mostra non ha per nulla “cristianizzato il rock”, ma al contrario, come ha detto Davide Rondoni al TG2, ha mostrato che se si tende all’infinito anche lavando i piatti, non si vede perché non lo si possa fare con la chitarra in mano. E’ quel grido originario, quello “yaargh” che la mostra ha portato in scena, provando a scrostare la fuffa del rock dalla sua vena autentica e sanguinante (direbbe Nick Cave) e insieme provocando chi ascolta a compromettersi fino in fondo con le cose dette, cantate, urlare, espresse: solo l’infinita riduzione che si opera dei fenomeni e delle produzioni artistiche fa sì che di un Saviano si prenda sul serio “il messaggio” (cioè: isoliamo il crimine organizzato), mentre degli U2 si eviti puntualmente proprio il confronto con la cosa che a loro interessa maggiormente comunicare, cioè quello che hanno da dire questi irlandesi dai tempi di Boy e October fino ai giorni nostri (cioè: facciamo i conti con quel tal Gesù Cristo). 



Una cosa sommamente divertente è stata registrare – come ovvio – l’incredibile elenco di personaggi “mancanti” dalla mostra. In centinaia ci hanno detto: come mai non ci sono i Beatles e gli Stones? Perché i Pearl Jam si e i Nirvana no? Si può tagliare fuori Springsteen e Simon & Garfunke? Come vi permettete di escludere David Bowie e gli Who? E Peter Gabriel oppure Frank Zappa? Sarebbe una bellissima storia raccontare come sono emersi i nomi della mostra, ma questa è cosa che solo Waters potrebbe fare con precisione. 

Allo stesso modo – facendo ricorso a quell’insostituibile serbatoio di originalità che è il proprio gusto personale – per narrare quell’innato urlo che senza risposta può diventare tristezza dimessa se non autodistruzione, avrei senza dubbio citato un’altra delle band che per me sono icona del rock, la Allman Brothers Band. In Old Before My Time la voce ineguagliabile di Gregg Allman racconta la fatica di una ricerca senza risposte: “Cercare le risposte, Cercare la verità in un oceano di bugie / cercare di trovare la ragione che fa andare avanti le cose, può farti invecchiare prima del tempo”. L’uomo sconsolato e senza forze di questa canzone è terribilmente vicino a quegli ultimi pannelli della mostra del Meeting: cosa succede quando hai tutto il successo e comprendi di non avere nulla tra le mani? 



Ma qui so che mi inoltro in uno spazio infinito, quello che ognuno dei visitatori della mostra e degli ascoltatori di qualsiasi genere (da Tiziano Ferro ai Manowar) potrebbe riempire di propri contenuti: è lo spazio della personalizzazione. Ogni tema lanciato in quel percorso che Waters e compagni hanno proposto al Meeting costringe un po’ tutti a confrontarsi, a tirare fuori le proprie cose dal cassetto, a diventare protagonista di una rilettura di canzoni e artisti, dischi e periodi musicali. Centinaia, anzi migliaia sono le canzoni che potrebbero essere raccontate sulla falsariga di quel che è stato fatto a Rimini, da Bob Marley ai Matia Bazar, dai Led Zeppelin ai Muse, dai King Crimson ai Wolfmother. L’invito, implicito ma non troppo, è che ognuno ci provi, dialogando in ogni modo possibile. Affinché si realizzi quell’ultimo invito, compreso nelle parole finali della mostra: che anche quel grido inesprimibile – quel “grido disarticolato del cuore” – che c’e dentro ad una canzone possa diventare una sfida in più per camminare e per continuare a vivere.

Però una cosa è significativa e dimostra la passione con cui la gente – tutta – ascolta la musica e quindi ha notato le “assenze” incriminate, segno che certe canzoni e certi artisti lasciano un segno inspiegabile. Anzi, meglio ancora: che certe canzoni realizzano un ponte inspiegabile tra l’intuizione di chi le ha scritte e la disponibilità ad ascoltare di chi le ha accolte. Per Waters la canzone da cui tutto è partito è stata l’ormai famosa Ride the White Swan, per me è stata l’immensa Piece of My Heart cantata da Janis Joplin, di cui ho scritto “la canzone assume una fisicità così toccante e reale da diventare più di una semplice canzone: è una confessione, un dono, è la possibilità di entrare in rapporto con l’altro fino in fondo, fino al cuore grondante, fino alle cellule e anche oltre, fino all’anima. 

Come Joe Cocker ha trasformato sul palco del concerto di Woodstock una canzone dei Beatles, With a Little Help from My Friends, in una necessità viscerale di amicizia, Janis rende Piece of My Heart un tutt’uno con il suo corpo, con il suo sorriso, con le sue lacrime, con il suo bisogno di donarsi e scoprirsi, così, insieme all’altro, al suo amore. Nella fisicità di questa piccola e bionda texana tutto il rock ha scoperto come mai prima e mai dopo la potenza dell’interpretazione: nessuna concessione alla pulizia e alle cose fatte bene, ma puro passaggio della inaudita passione umana. Una passione inarrestabile”.