La mostra è intitolata Dal Profondo del Tempo: all’origine della comunicazione e della comunità nell’antica Siria. In questa mostra si raggiunge certamente la profondità del tempo – l’apice del nostro essere, ciò che siamo oggi. È qui dove troviamo alcuni elementi fondamentali in merito alla nostra stessa identità come esseri umani. Vediamo questo attraverso gli scavi di un sito in Georgia, Dmanisi, che risale a un milione e 800mila anni fa. Lì vediamo la capacità di fare gli strumenti che ci aiutano a vivere una vita migliore e anche la strepitosa evidenza della cura di una persona vecchia e inferma del gruppo. Vediamo in quegli anni così lontani la nostra prima comprensione del tempo e del ciclo mutevole della natura, e seguiamo gli eventi fino all’inizio del linguaggio, che ha segnato un primo passo fondamentale verso il pensiero logico e la vita urbana.
Il che ci porta allo sviluppo di una delle prime città. L’esperienza viene da dentro la città antica, per così dire, attraverso i nostri 30 anni di ricerche sulla antica città di Urkesh.
Alla fine di questa mostra condividiamo i nostri sforzi continui e proficui per preservare la fragile architettura antica della città di Urkesh. Ma la conservazione non è tutto ciò che stiamo facendo oggi. Stiamo cercando modi positivi per aiutare i locali a continuare, anche durante la nostra assenza forzata e prolungata, ad identificarsi con l’antica città, come fossero i “guardiani del territorio”. Siamo impegnati con loro oggi in un processo di empowerment – come non avremmo mai pensato che potesse essere necessario o possibile! Noi vogliamo che loro continuino a usufruire economicamente dal nostro costante interesse e della nostra “presenza”. Questo si può fare per la generosa partecipazione dei sostenitori, che hanno guardato al valore del futuro, e per la collaborazione instancabile del nostro giovane staff.
Ma a monte di tutto questo possiamo chiederci: perché dovremmo preoccuparci di un passato tanto antico, di una tale “periferia” (per riprendere il tema del Meeting)? Anche in passato, la gente ha dovuto adattarsi ai cambiamenti nel loro mondo e questa stessa necessità ci si pone di fronte oggi. In altre parole, la natura del problema oggi è la stessa che in passato, anche se le specifiche sono diverse: come è possibile che ci adattiamo al cambiamento? Se riflettiamo, poi, sulla natura di ciò che il nostro adattamento comporta, secondo me, otteniamo due vantaggi. La nostra riflessione ci dovrebbe portare a capire meglio il passato. E così è che le nostre riflessioni ci possono portare a capire meglio noi stessi: perché vediamo i nostri propri meccanismi di adattamento attraverso la lente dei loro processi di adattamento. Il nostro rispetto per loro, nella loro continua ricerca di risposte ci aiuta a forgiare, con coraggio, la nostra.
Se guardiamo a quanto tempo ci è voluto per arrivare qui, dobbiamo chiederci: davvero vogliamo perdere ciò che abbiamo? Vogliamo distruggerlo o vederlo distrutto? Perché non significa solo perdere le cose che hanno fatto la nostra civiltà. In questo processo, distruggeremmo la nostra fibra morale, perché se perdiamo la prova della nostra traiettoria umana in qualche misura perdiamo anche il risultato − che è la nostra fibra morale.
Come dicevo all’inizio: perché preoccuparci della periferia del tempo?
La risposta emerge dalla considerazione, piena di sorpresa, di quanto tempo ci è voluto per arrivare fino al nostro oggi. È un salto nel tempo che sembra un abisso. Ma questo abisso diventa un trampolino. Non saremmo quello che siamo se fossimo senza passato, anche il più remoto. E vogliamo ben capire quello che siamo, no? E allora dobbiamo affondarci in questo humus del nostro essere, la storia. Dobbiamo, davvero, immergerci nelle profondità del più profondo del tempo.