Non ha mai indossato la tuta spaziale e non è mai stato in orbita, ma Piero Benvenuti può benissimo essere considerato un “esploratore”: come astrofisico ha esplorato il sistema solare e le profondità cosmiche dapprima presso l’Osservatorio di Padova-Asiago, poi dalla stazione di controllo del satellite IUE (International Ultraviolet Explorer), poi come responsabile scientifico dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) per il Telescopio Spaziale Hubble.
Con lui – che tra l’altro interverrà il 25 sera all’incontro “Leggere la storia, leggere le stelle” – ci inoltriamo in anteprima nel percorso della mostra “Explorers”, curata dall’Associazione Euresis e che si prepara ad accogliere una prevedibile grande ondata di visitatori nel padiglione A1 della Fiera di Rimini.
Benvenuti inizia ricordando gli anni della competizione Usa-Urss per il primato nell’esplorazione spaziale: un’avventura che sul piano scientifico già sessant’anni fa aveva le carte in regola per imporsi ma che indubbiamente ha ricevuto un notevole impulso dalla sfida tra i due blocchi impegnati ad affermare il proprio predominio tecnologico. «Probabilmente la parte scientifica si sarebbe sviluppata ugualmente ma in modo molto più lento; la spinta politica è stata determinante e soprattutto ha generato una forte accelerazione nel momento in cui i sovietici hanno messo a segno il primo goal con lo Sputnik nel 1957, dimostrando di poter lanciare in orbita un satellite. Da allora le attività spaziali si sono intensificate, anche semplificando le procedure e saltando qualche regola di sicurezza; così la corsa è andata avanti molto più velocemente di quanto avrebbe fatto per la sola motivazione scientifica».
Inevitabile qui un richiamo all’attualità spaziale: non si parla più di competizione o ci stiamo avviando verso una nuova Race to Space? «Oggi la situazione è molto più variegata: non ci sono più i due fronti contrapposti e le grandi potenze hanno dimostrato capacità comuni: per la Stazione Spaziale Internazionale (ISS) c’è una intensa collaborazione al punto che, in mancanza dello Shuttle, anche gli astronauti americani ed europei vengono portati sulla ISS con la russa Soyouz. Sul palcoscenico spaziale si stanno però affacciando altri attori, in particolare Cina e India, che vogliono recuperare il tempo perduto e dimostrare le loro grandi potenzialità di esplorazione dello spazio. Si sta quindi riaccendendo, in altre forme, una certa competizione».
Benvenuti sottolinea che Usa, Russia ed Europa sono su posizioni più realistiche e, consapevoli delle proprie capacità tecnologiche, cercano di ottenerne il massimo ritorno. Lo dimostrano iniziative come quelle della rete GPS europea e dei sistemi satellitari di monitoraggio ambientale, dove le tecnologie spaziali vengono impiegati per una pluralità di scopi.
Torniamo a “Explorers” ed entriamo nella sezione della mostra dedicata, non senza effetti speciali, alla esplorazione diretta delle due mete da sempre perseguite da scienziati, poeti e visionari: la Luna e Marte. Il nostro interlocutore non può trattenersi dal ricordo personale di quel luglio 1969 quando, giovane laureando in fisica, non aveva perso un minuto dei servizi radio-televisivi culminati con la posa della prima impronta di Armstrong sul suolo lunare; sono stati eventi che hanno sicuramente influenzato anche la sua nascente carriera scientifica. «Ripensando agli aspetti tecnici dell’impresa e ragionando col senno di poi, se guardiamo ai rischi che si sono assunti gli americani per portare l’uomo sulla Luna, possiamo ben dire che oggi non li correrebbero più».
Adesso però si parla tanto di inviare equipaggi umani su Marte; forse però con aspettative eccessive, trascurando qualche fattore non irrilevante. «Mi sembra che ci sia un’eccessiva fiducia nella realizzabilità dell’operazione. Il problema fondamentale a mio avviso è la durata del viaggio, che è troppo lunga: ci vogliono circa sei mesi, durante i quali gli eventuale viaggiatori si troverebbero esposti alla radiazione cosmica senza difese e ne assorbirebbero dosi praticamente letali. Inoltre sappiamo già che la permanenza prolungata nello spazio, oltre a indurre problemi di osteoporosi, riduce in modo rilevante la nostra capacità muscolare: basta guardare i video del ritorno a Terra degli astronauti dopo una lunga permanenza sulla ISS. All’arrivo su Marte quindi, un astronauta avrebbe notevoli difficoltà di adattamento, considerando anche le inusuali condizioni ambientali».
Tra le nuove tecnologie che andrebbero sviluppate per affrontare questi problemi, Benvenuti cita i sistemi di propulsione, come quelli al plasma o la propulsione elettrica; e anche i sistemi di protezione dai raggi cosmici, realizzati avvolgendo le astronavi in una sorta di bottiglia magnetica. «Sono soluzioni tecnicamente non impossibili. Del resto il rivelatore AMS, attualmente sulla ISS per dare la caccia all’antimateria, non è altro che un grosso magnete. Il punto è che quelle bottiglie magnetiche non sono mai state costruite e per ora sono solo un’idea».
Oltre alla Luna e a Marte, un programma spaziale che è un po’ il simbolo dell’audacia esplorativa umana è la missione Voyager, che nel 1977 ha inviato due sonde una delle quali ha già oltrepassato il confine della Eliosfera, cioè l’area di influenza del Sole e sta ancora trasmettendo dati mentre si inoltra nel mezzo interstellare. È stato proprio il Voyager, il cui modello campeggia al centro del percorso espositivo, a offrire le suggestioni che hanno guidato i curatori della mostra Explorers. «È stata una grande impresa anche semplicemente immaginare, decenni fa, di lanciare una navicella che avrebbe proseguito il suo viaggio verso l’esterno del sistema solare; ed è impressionante constatare che i suoi strumenti di bordo continuano a funzionare a dovere».
Il Voyager ha anche un’altra componente altamente suggestiva: a bordo è stato posto un disco d’oro con inciso un messaggio che presenta l’umanità a un’ipotetica civiltà aliena. Il contenuto del messaggio ha sollevato allora, ma ripropone anche a noi oggi, il problema di cosa raccontare di noi a qualcuno di cui non sappiamo nulla; questo ci spinge a riflettere su quali sono i fattori che definiscono davvero la nostra umanità e, anche se non dovessimo mai incontrare nessun altro nelle profondità dello spazio, è comunque una provocazione a guardare anzitutto a noi stessi in modo più vero e consapevole; come aveva affermato l’ideatore del disco, Carl Sagan, in una citazione riportata nella mostra:”Siamo un modo per il Cosmo di conoscere se stesso”.
A partire da queste riflessioni, Benvenuti si misura con l’interrogativo che sottende tutto il percorso della mostra: perché si esplora? cosa si cerca nell’esplorazione? «L’esplorazione in sé è un’esigenza primordiale dell’essere umano. In questo momento, per quanto riguarda l’esplorazione dello spazio, la ricerca è focalizzata sulla ricerca di possibili forme di vita nel sistema solare e al di fuori di esso. La ragione principale di questo rinnovato interesse è la scoperta, peraltro relativamente recente, che quasi tutte le stelle ospitano dei sistemi planetari e ciò significa avere a disposizione miliardi di miliardi di pianeti candidati alla presenza della vita. Ciò ha rilanciato la domanda cruciale, cioè se il fenomeno vita è un fatto generale che avviene in tutto l’universo o se è accaduto unicamente sulla Terra. Un interrogativo la cui risposta ha, evidentemente, delle enormi conseguenze anche filosofiche e teologiche».
Questo riferimento collega nuovamente la mostra all’attualità. Benvenuti condivide la grande aspettativa, che non è solo degli astrofisici, per la missione Rosetta, che proprio in questi giorni è entrata nella fasi decisive che la porteranno a incontrare direttamente la cometa Churyumov-Gerasimenko: «perché le comete sono la parte più antica di un sistema planetario e mantengono nei loro nuclei le informazioni sulle molecole che si sono formate nel mezzo interstellare; capire se queste molecole sono quelle destinate a diventare i mattoni per costruire le molecole prebiotiche è una domanda affascinante. Speriamo che la missione Rosetta riesca a darci qualche risposta».
E saranno comunque risposte che toccano il soggetto e insieme l’oggetto reale dell’esperienza esplorativa, vale a dire l’uomo. «La cosmologia ci dice che siamo tutti parte di una comune evoluzione globale: il nostro legame col cosmo non è solo formale ma è molto profondo. Capire se questa evoluzione globale ha fatto emergere creature coscienti solo qui o anche altrove ha implicazioni notevolissime. Anche se, va detto chiaramente, non riusciremo mai a comunicare con questi eventuali altri esseri coscienti. Ma il solo ipotizzarne l’esistenza ci porta a fare considerazioni rilevanti per la comprensione del nostro posto nell’universo; ci ripropone con più urgenza la domanda “chi sono io di fronte a tutto questo meraviglioso e immenso universo?”».
(Mario Gargantini)