Si prende il rischio e la responsabilità di una domanda esplicita, con tanto di punto interrogativo, il trentaseiesimo Meeting di Rimini, che nel titolo dell’edizione 2015 si affida ai versi di un poeta, Mario Luzi: «Di che è mancanza questa mancanza, cuore, che a un tratto ne sei pieno?».
Porre una domanda così radicale è sempre un rischio e una responsabilità, in un tempo che per le domande radicali ha sviluppato una certa infastidita diffidenza: un rischio che non a caso è qui la poesia a formulare con il gesto fermo e discreto di chi conosce l’immensa dignità del proprio grido. Una sfida tanto più interessante, se si pensa a come una manifestazione così imponente e clamorosamente “pubblica” come il Meeting di Rimini possa lasciarsi sfidare da una domanda che, per tanti, può apparire come una questione psicologica, privata, intimistica. Mi sembra perciò che nella scelta di questo titolo, il Meeting lanci già nelle premesse una provocazione decisiva: e cioè che una domanda sulla realtà del proprio cuore, su quella mancanza che ne definisce la natura, può e deve essere un’ipotesi valida per interrogare tutti i campi, i saperi e i luoghi d’incontro: una domanda che può e deve farsi strumento di verifica culturale, economica, scientifica, politica. Non (solo) per la portata delle sue implicazioni, ma per il suo sfidare il cuore e il destino individuale di ogni singolo uomo. La crisi storica europea – ci dice questa scelta – non può capirsi né tantomeno risollevarsi se non facendo fronte a questa domanda personalmente.
Non è un caso che sia stato proprio Mario Luzi, in un articolo del 1954, a scrivere in merito: «Ciò a cui stiamo assistendo non è la crisi, bensì la crisi della crisi e cioè la nevrosi. Non temessi di riuscire paradossale e brillante, direi infatti che è proprio la crisi che è in crisi. (…) Tutti i sintomi della nevrosi si possono riassumere, mi pare, in una grave perdita di concretezza: i gesti che suggerisce peccano di astrazione, mancano di mordente e di presa proprio mentre traducono l’ansia di afferrare risolutamente e definitivamente, senza più una gerarchia perché senza più centro, i termini del problema. Spara a bruciapelo su ogni parvenza o ombra, temendo gli scappi la preda».
La domanda di Luzi fotografa quindi non la diagnosi di uno stato o la curvatura di una riflessione, ma la realtà dinamica e incalzante di una sfida: quella di ripartire, precisare, guardare la vera natura del proprio bisogno. Chiedersi di che mancanza sia questa mia mancanza significa in altre parole chiedermi di cosa io ho davvero bisogno – andare a fare i conti con ciò che io sono, con ciò che l’uomo è veramente.
Basterebbe proseguire la lettura di quei versi che il titolo del Meeting cita ovviamente solo dall’incipit: «Di che è mancanza questa mancanza, / cuore, / che a un tratto ne / sei pieno? / Di che? / Rotta la diga / t’inonda e ti sommerge / la piena della tua indigenza…» e poi, come in un sussurrare piano, in un tendere l’orecchio: «Viene, / forse viene, / da oltre te / un richiamo / che ora perché agonizzi non ascolti. / Ma c’è, ne custodisce / forza e canto / la musica perpetua ritornerà. / Sii calmo».
La domanda sulla mancanza è riconsegnata al cuore “dall’esterno”, da «un richiamo», che non archivia la domanda ma la riapre, la spalanca, le dà voce e respiro, le dà una storia. Rovesciando l’altra grande interrogazione al proprio cuore della poesia europea, quella di Arthur Rimbaud, che nel Le coeur du pitre, nella bruciante delusione della Comune di Parigi, sogno e utopia storica di tanti, tragicamente chiedeva: «Che fare, oh cuore derubato?», Luzi pre-sente che quella domanda, quell’interrogazione alla mancanza, è paradossalmente destata dalla voce di una strana presenza: qualcuno che viene «da oltre te», che «ritornerà», qualcuno sta chiamando il mio nome, sveglia in me la vertigine di essere creatura bisognosa. È la stessa dinamica già registrata in una poesia più antica, del 1947, Bimbo, parco, gridi – una simile, commossa sconcertata domanda unita alla constatazione di un apparente paradosso: «Come accade che al tuo impaziente invito / la ferita nell’essere, richiusa / da lagrime e lagrime, dal duro / diniego sempre aperto all’avventura / risanguini, sia ancora il mio destino?».
È a quest’immensa altezza che si pone la grande scommessa di questo titolo, così netto e radicale, così dialogante e familiare col cuore di ciascuno. Cosa c’è di più necessario di questo invito e questa sfida, viene da chiedersi; cosa c’è di più umano di questa ripartenza dal bisogno, quale tenerezza maggiore di questa sconfinata scommessa sul proprio reale desiderio? È infatti un desiderio – non annientato ma anzi sollecitato, acceso dalla mancanza – ciò che continua la strada dell’«eroe delle periferie» disegnato in questa edizione, e inaugura un rapporto tra uomo e realtà, uomo e destino che ha la forma di una domanda in cammino: domanda che oggi più che mai sentiamo l’urgenza di verificare.