“Roba minima” è un’espressione tipica di Enzo Jannacci. Compare nella storica “El portava i scarp del tennis” quando egli parla dell’amore vagheggiato da un senzatetto destinato a morire per strada, sotto un mucchio di cartoni, nell’indifferenza di chi scorgendolo esclamerà “Lascia stare, è roba da barboni”.



Roba da barboni, già. E quell’assurdo amore agognato dall’uomo, senz’altro fallimentare, è roba dunque “minima”. Per la precisione “Roba minima, s’intende, roba de barbon”. Ma dietro il pudore, accanto all’ironia melanconica, ecco già in controluce, nel debutto d’artista del Dottore annata 1964, il graffio: altra faccenda tipica della scrittura jannacciana. Perché sì, sarà anche “roba minima”, ‘sto barbone che dopo aver visto da lontano una donna all’Idroscalo non riesce più nemmeno a parlare, ma proprio mentre la canzone di Jannacci lo dice, rende perfettamente chiaro ed evidente, almeno a chi vuole ascoltare, che non si può trattare di una faccenda secondaria. Perché non è e non sarà mai “roba minima”, la vita di un uomo.



Neppure se quell’uomo è uno squinternato, un emarginato, uno dei cosiddetti “ultimi”. Jannacci l’aveva scritta apposta così, “El portava i scarp del tennis”, sottolineando un problema facendo finta di nulla come avrebbe fatto (per dire) anche in “Vengo anch’io. No, tu no”; e apposta la cantava “schizo”, voce chioccia e stralunamenti alla Buster Keaton, perché la denuncia non finisse sotto gli strali della censura.

Tant’è che quando poi Jannacci portò il brano in Tv non gli censurarono la morte del barbone,né la denuncia dell’indifferenza. Sostituirono la definizione della beltà della donna amata dal barbone: e “bianca e rossa, che pareva il tricolore” divenne – se ci credete – “bianca e rossa, che pareva il BIcolore”.



Non si poteva dire “tricolore”, nella Rai del ’64. Non si potevano allora dire molte cose, in verità: però la chiave surrealista di Jannacci, nonché il suo celarsi dietro quella spiazzante “roba minima”, gli permise di far passare una denuncia di deriva morale che si sarebbe rivelata ahinoi alquanto profetica, e che subito chiarì però anche rigore e originalità dell’artista. Rigore, originalità, pure esigenza di dare un senso, stando attento agli altri, al proprio vivere: anche da canzonettaro o, come Jannacci amava definirsi, Saltimbanco. Eccolo qui, dunque, il perché dei “Racconti minimi” che nella mia piccola esperienza vogliono seguire, nelle piazze e nelle strade e ovunque mi chiameranno, un lavoro teatrale dedicato a Jannacci quand’era ancora in vita e un libro purtroppo uscito dopo il suo addio. Perché Enzo era proprio un’altra cosa, qualcosa che oggi manca.

Aveva l’esigenza di denunciarlo sempre, ciò che andava contro la dignità dell’uomo, rimarcandone i valori primari che per lui erano altruismo e rispetto: e lo faceva nelle canzoni costruendole apposta in un certo modo, fintamente divertito o tragicomico o esplicitamente violento, a seconda; sempre però con una lucidità superiore a quanto di solito si percepisse, e spesso si dica, di lui. Ma a fianco di tale esigenza c’era in Jannacci anche l’esigenza di dare: mettere in pratica da medico, spesso anche da volontario, quanto diceva nelle canzoni. Fateci caso, perché è un unicum fra gli artisti. Solo di Enzo Jannacci si può dire abbia cantato valori e comportamenti che ha vissuto concretamente, e solo di Enzo Jannacci si può dire abbia vissuto proprio tra gli stessi emarginati, ultimi, se volete squinternati, che ha cantato.

Ma è per questo, che Enzo va raccontato ancora. “Racconti minimi”, certo, col suo pudore e pure con le sue derive a tratti esilaranti:  per ricordarne gli sgangherati provini  o la scelta di far canzoni in un certo modo sapendo quanto sarebbe costato; il suo modo di “curare” (si fa per dire) gli amici o il senso forte, non sempre noto, di certe canzoni che qua e là nei “Racconti” ci si prova anche a leggere. Perché come Enzo Jannacci ha scritto, ed è vero, ci sarà sempre qualcuno che dirà che un “Saltimbanco che ringrazia fa pietà”. Ma è anche vero che se uno “comincia una canzone… La finirà”: e allora, cantiamola ancora, la canzone di Enzo Jannacci e del suo sorriso buono, infinito, bambino che non sfuggiva la vita di tutti i giorni. La sua vita, la nostra.

Come dite? Lo so, lo so. Da critico avrei anche potuto presentarvi i “Racconti minimi” limitandomi a scrivere che di un’eccellenza non ci si può dimenticare: Jannacci era un’eccellenza culturale italiana, dunque testimoniarla sarà sempre doveroso. Soltanto che è da persona, che soprattutto sento necessario condividere di Jannacci ricordi, parole, aneddoti, assurdità, poesia. “Racconti minimi” per tutto quanto scritto sopra, dunque. Ovvero roba ben poco minima da raccontare, anche oggi che troppe faccende decisive per l’uomo sono bollate come marginali persino di più di quando Jannacci lo notò: e tenendo fermo dell’artista, semmai, solo lo stesso pudore “minimo” dello scrivere e del vivere. Perché Enzo Jannacci era uno che di sé al più diceva: “Sono matto, sì. Ma non sono mica scemo!”

E questa faccenda indubbiamente interessante  è solo una delle tante, dell’universo jannacciano, che i “Racconti minimi” fra parole e canzoni vogliono, con affetto e rigore, provarsi a dimostrare ancora.

In un’oretta racconto storia, parole, aneddoti, facendo divertire e spero commuovere, in modo parateatrale. Tutto Jannacci in 60 minuti con momenti di lettura di alcuni testi tra cui: Quando un musicista ride, Il cane con i capelli, El portava i scarp del tennis, Ti te se no, Per un basin, Ragazzo padre, Prendeva il treno, Quelli che…, Quando il sipario, Giovanni telegrafista, Sergej, La fotografia, Una vita difficile.

L’affetto per Enzo mi ha spinto a fare il Cantastorie della sua vita.

Leggi anche

CARO GRILLINO.../ Sapelli: lo sai che anche denaro e potere possono fare il bene?IDEE/ Poletti e la "responsabilità" per cambiare il lavoro in ItaliaFAMIGLIA E MATRIMONIO/ L'"invidia" delle unioni civili