Quando è nato, una decina d’anni fa, le aspettative per l’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) erano elevate: e non sono state disattese. L’obiettivo iniziale di promuovere lo sviluppo tecnologico del paese e l’alta formazione in ambito scientifico/tecnologico sembra raggiungibile e l’integrazione fra ricerca scientifica di base e sviluppo di applicazioni tecniche sembra praticabile; e il credito che si è conquistato anche a livello internazionale è notevole, soprattutto negli ambiti a elevato contenuto innovativo in molti settori: dalla medicina all’industria, dall’informatica alla robotica, alle scienze della vita, alle nanobiotecnologie.



Alla Direzione Scientifica dell’IIT dal suo inizio c’è Roberto Cingolani, milanese, laureato in fisica a Bari e poi professore di fisica all’Università di Lecce dove nel 2001 aveva fondato e diretto il Laboratorio Nazionale di Nanotecnologia dell’Infm. Cingolani interverrà oggi al Meeting di Rimini sul tema “Tecnologia: un grande bene o idolatria?”: il sussidiario.net l’ha incontrato.



Professor Cingolani, lei è un fisico ma dirige l’Istituto Italiano di Tecnologia: un esempio di discontinuità o forse un segno che oggi il confine tra scienza e tecnologia non è sempre così netto?

Oggi c’è l’esigenza di avere qualche forma di specializzazione; per definizione, la tecnologia va in tutti gli ambiti quindi per figure come la mia, che devono dirigere un grande laboratorio come l’IIT con tanti ricercatori in diverse discipline, è giusto partire da qualche forma di competenza specifica che poi però si deve poter estendere a settori diversificati. Tra l’altro negli ultimi  10 – 15 anni c’è strato un impressionante sviluppo delle scienze interdisciplinari e ciò deriva in particolare dallo sviluppo delle nanotecnologie che ci hanno costretto  a ridiscutere un po’ tutto il tradizionale approccio alla tecnologia e all’innovazione. Siamo ormai arrivati a poter manipolare gli atomi; le nanotecnologie funzionano grosso modo così: si parte dal basso, si prendono gli atomi e si costruisce quello che si vuole. Quindi si riparte in qualche modo da zero e certe barriere disciplinari spariscono: prendere carbonio, idrogeno e ossigeno e costruire una proteina (ambito biologico) non è molto diverso dal prendere atomi di carbonio e realizzare un foglio di grafene (ambito chimico e fisico).



Personalmente, come fisico, con un background da nanotecnologo, sono stato uno dei primi che ha assunto l’impostazione interdisciplinare, del resto, è più facile che un nanotecnologo si sposti verso la medicina o la robotica che non vicedversa.

Ci sono diversità nel modo di concepire e impostare la ricerca tra i diversi contesti mondiali? È diverso fare ricerca a Genova o a Boston o a Tsukuba?

Parto da una metafora. A calcio si gioca sempre allo stesso modo: le regole sono quelle, l’obiettivo è quello, portare la palla in rete; quindi contano le persone, la preparazione atletica, il modulo di gioco, l’estro dei campioni. La ricerca è come una competizione sportiva, dove conta la cultura, la genialità, l’intuizione, la capacità studiare intensamente… e come nel calcio gli investimenti infrastrutturali contano. È vero anche che in  alcuni casi, pur senza grandi investimenti ma avendo dei talenti si possono ottenere buoni risultati. La vera differenza nel fare ricerca in Italia e in altri paesi molto avanzati come Corea, Giappone, Germania, Stati Uniti è che oggettivamente da noi c’è meno sensibilità per l’importanza, non solo scientifica ma anche sociale, della ricerca. Da noi il mestiere del ricercatore non è valorizzato e non è stato reso attrattivo per i giovani: è un mestiere per gente appassionata; il ricercatore è uno mediamente considerato un po’ matto, al quale non interessano molto i soldi; è un po’ come un artistoide…. Invece in altri paesi quello del ricercatore è visto come il mestiere del futuro: è dai giovani che intraprendono questa strada che ci si attendono i miglioramenti anche per il mondo industriale e per la società nel suo insieme.

Questa diversità di concezione spiega anche perché da noi non si investe molto in ricerca.

Tecnologia: bene o idolatria? O forse entrambe le cose: dove vede l’una e dove l’altra?

La questione dell’idolatria non la capisco molto. Se si parla di scienza e di tecnologia non vedo come si possa parlare di idolatria. L’idolo è venerato dall’ignorante, mentre alla base di tutte le tecnologie c’è molta conoscenza, molta cultura. C’è piuttosto, indubbiamente, un altro aspetto da considerare che è il mercato, che svolge un’azione di doping. Mi spiego. Personalmente continuo ad essere profondamente turbato da un concetto economico di tecnologia che porta, ad esempio, un social network come Twitter a valere 19 miliardi ma questo valore non viene dal suo contenuto tecnologico che è piuttosto insignificante. La tecnologia è un’altra cosa, è una cosa molto più seria. Invece vedo che si fa troppa “moda” : più che idolatria, vedo queste tendenze preoccupanti a far prevalere le mode.

 

L’IIT compie dieci anni sotto la sua direzione: cosa non rifarebbe o cosa farebbe che non si è fatto?

 

Francamente non mi sembra che abbiamo fatto errori clamorosi, tanto da dover dire “questo non lo rifarei”. Peraltro i risultati ci danno ragione: abbiamo fatto tutto in tempo, siamo internazionalmente riconosciuti, abbiamo alcune nostre start-up …. Abbiamo fatto certamente, come in qualunque esperienza umana, errori: ad esempio nella scelta di qualche attività o di qualche persona; ma sono errori che abbiamo già corretto in corso d’opera; per alcune cose che ci siamo accorti non funzionare, abbiamo subito messo in atto azioni di controllo e contenimento dei danni. D’altra parte se uno non sbaglia non impara a correggere e se non si sa correggere il rischio di insuccesso cresce.  Quello che ci manca è dovuto eventualmente ai nostri limiti: probabilmente qualcuno più bravo di me o dei miei collaboratori avrebbe potuto fare meglio. Ma abbiamo fatto tutto al meglio delle nostre conoscenze e delle nostre possibilità

 

L’IIT interagisce con diverse realtà, dall’università, alle istituzioni, alle imprese: ha trovato più difficile l’interazione col mondo della ricerca accademica o con quello dell’industria?

 

Si tratta di difficoltà completamente diverse. Con l’Accademia la difficoltà è più del tipo della “proprietà intellettuale”, nel senso che c’è una competizione e ci può essere un po’ di gelosia. Con le aziende la difficoltà è di altro tipo. Non c’è competizione e c’è una grande disponibilità reciproca; ma è evidente che l’azienda deve fare profitti e quindi ha fretta di arrivare a dei risultati utili; mentre noi siamo più cauti, vogliamo fare tutte le verifiche delle novità sviluppate e questo può essere visto come un tempo perso. Tuttavia l’esperienza di questi anni ha mostrato, su entrambi i fronti, una possibilità di esperienze molto positive. Dalle aziende abbiamo imparato moltissimo e ora stiamo trasferendo questi insegnamenti in un crescendo di attività. Sull’altro versante, il fatto di aver istituito una decina di laboratori presso università e istituti pubblici parla da sé e mostra che c’è una grande apertura e una reale possibilità collaborativa.

 

L’uomo è sempre alla ricerca di risposte alle domande più profonde, più decisive per la vita: scienza e tecnologia possono dare un contributo ? quale?

 

Questa è una domanda chiave e se potessi rispondere con un’immagine descriverei una linea nella direzione dell’infinito lungo la quale noi siamo indirizzati. Io vedo scienza e tecnologia incondizionatamente a servizio dell’uomo; non è un caso che il nostro piano strategico per i prossimi anni preveda tutta una serie di tecnologie che ruotano intorno all’essere umano, come nanotecnologie per la terapia, riabilitazione robotica, allungamento della vita. La mia idea è quella di una scienza e una tecnologia per l’uomo: ma questo è un concetto più profondo di quanto esprima la semplice frase. Se pensiamo che tutta la natura per tre miliardi di anni si è evoluta intorno all’essere umano, fare una tecnologia umano-centrica significa anzitutto ispirarsi alla natura e partire dalle soluzioni che la natura ha sviluppato per gli esseri viventi durante l’evoluzione per tradurle in applicazioni attuali e renderle tecnologicamente sostenibili. Questo cambia la prospettiva dell’innovazione e dell’invenzione: invece di fare un oggetto che non ha niente a che vedere con ciò che già esiste, conviene spesso copiare i meccanismi della natura ottenendo così dei sistemi che risultano intrinsecamente più efficaci e probabilmente consumano anche meno energia. Il nostro è quindi, sinteticamente, un approccio biomimetico, centrato sull’essere umano e orientato a far vivere meglio l’uomo: invecchiare meglio, avere una terza e quarta età più sostenibile, disporre di diagnostiche e terapie per la gente meno abbiente, sviluppare metodologie per recuperare l’acqua, per fare la plastica biodegradabile e, in generale, avere un Pianeta più sostenibile.

(Mario Gargantini)

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