La mostra del Meeting di Rimini “L’incontro con l’altro: genio della Repubblica. 1946-2016” intende contribuire a far comprendere il senso della storia di questi settanta anni. La vita della Repubblica è vita di grandi personalità e di comuni cittadini. Le classi dirigenti del dopoguerra hanno avuto il merito di valorizzare, nella Ricostruzione, l’iniziativa di grandi parti del popolo fino a quel momento escluse dalla scena pubblica. Questa intuizione di fondo, che vede il popolo come fattore dinamico della storia italiana, si dipana nelle sale, nei video e negli incontri lungo diverse linee: politica, economia, cultura, religione, società.
Il settantesimo compleanno della Repubblica diventa una preziosa occasione per trarre suggerimenti dalle fasi positive della nostra storia. Ci siamo forse abituati a una vita pubblica come conflitto privo di regole. Ma non sempre è stato così: il nostro Paese si è costruito grazie al compromesso virtuoso non solo tra culture diverse ma anche tra diverse concezioni della democrazia, quella repubblicana e quella liberale.
La prima concepiva la democrazia come “assenza di dominio”. L’altra concepiva la democrazia come “assenza di interferenze” nella vita privata. Entrambe le concezioni avevano aspetti positivi, ma nessuna delle due era esente da rischi. Perché l’assenza di dominio non si trasformasse in dominio dell’anarchia, era necessaria la virtù civica, intesa come virtuosa partecipazione alla vita pubblica, che permette al cittadino di non essere suddito e richiede l’adempimento di specifici doveri civili.
L’idea repubblicana della democrazia è fondata sul diritto-dovere di far parte della res publica e offre quindi una visione positiva della politica. Il liberalismo garantisce pienamente le libertà individuali, ma ha una visione negativa della politica, sospettata di essere preda di interessi e passioni particolari. La visione fondata sul primato dei doveri può portare ad una torsione moralistica dell’impegno politico mentre la concezione liberale, fondata sul primato dei diritti, può condurre ad un disinteresse per la cosa pubblica.
Di qui la necessità di un compromesso, che nella Costituzione si è tradotto in un equilibrio tra doveri civici e diritti individuali. Il compromesso, che per tanti oggi è sinonimo di malaffare e debolezza, è stato invece la forza che, pur tra non piccole contraddizioni, ci ha permesso di superare anche le fasi più difficili. Purtroppo il seme repubblicano è stato lentamente, nel corso degli anni, sovrastato da una lettura liberale della democrazia (non raramente male interpretata) che ha messo in primo piano i diritti, oscurato i doveri e aperto la strada all’antipolitica. È necessario un riequilibrio. Consapevoli di questi problemi, la migliore chance per affrontare le sfide che abbiamo di fronte è quella di ritrovare le ragioni di un impegno condiviso e di valorizzare i doveri civici come accadde all’inizio della nostra storia repubblicana. Il passato dev’essere il prologo del futuro, come dice un personaggio de La Tempesta di Shakespeare.



La grande risorsa dell’Italia repubblicana sono state tutte le persone che si sono assunte l’onere di costruire, operare, esortare, dirigere sostenendo così la speranza di tutti. Questi “io” non si sono mossi isolatamente, ma hanno stretto legami anche con chi era diverso da loro per cultura, idealità e provenienza ed hanno così inteso la cittadinanza come partecipazione all’impegno pubblico. Il vero genio della Repubblica — al di là dei limiti e delle contraddizioni — è di aver scommesso sul fatto che l’altro, anche se diverso, è una risorsa e non un ostacolo. Ha scritto Julián Carrón “se non trova posto in noi l’esperienza elementare che l’altro è un bene, non un ostacolo per la pienezza del nostro io, nella politica, come nei rapporti umani e sociali, sarà difficile uscire dalla situazione in cui ci troviamo”.
La res publica ha bisogno che i cittadini tornino a partecipare a un progetto comune. Soggetti che per povertà, solitudine, abbandono, delusione o anche per cinismo o egoismo, si sono progressivamente estraniati dalla vita comune, devono ritrovare le motivazioni per tornare protagonisti. Le classi dirigenti, invece di inseguire vecchi e nuovi populismi, devono servire la Repubblica e rianimare la società. Perché questo avvenga, non si può continuare a demonizzare chi è diverso da sé, né si possono trascurare i doveri civici come è avvenuto sempre più frequentemente negli ultimi venti anni.
La Mostra di Rimini mette in campo due idee: l’idea che l’altro è una risorsa per la democrazia e l’idea che il cittadino ha il dovere di partecipare alla vita pubblica. La civilizzazione del Paese è progredita quando questi concetti sono stati forti nell’intelligenza dei cittadini comuni e delle classi dirigenti. È accaduto all’inizio della Repubblica e deve accadere di nuovo. Forse il mainstream va in un’altra direzione, ma da quella parte ci sono solo scogli affioranti.



Corriere della Sera, 12 agosto 2016

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